"Vico dei miracoli" e della napoletanità

È impossibile separare il pensiero del filosofo dallo spirito dei luoghi in cui visse

"Vico dei miracoli" e della napoletanità

Giambattista Vico nacque a Napoli il 23 giugno del 1668 e vi morì nel 1744, e visse i primi anni in un mezzanino di via San Biagio dei Librai. A causa di una caduta, a sette anni si fratturò il cranio e per tre anni patì l'inferno. Fu malato di scorbuto, di tisi (da lì, il nomignolo di «Tisicuzzus») e afflitto da mille altri acciacchi. La Provvidenza, intorno alla quale strutturò alcune delle sue tesi più note e che su ogni fatto umano opererebbe attraverso una trama di intrecci di cui non possiamo riconoscere l'intero disegno, gli riservò solo tribolazioni.

Come scrive Marcello Veneziani nel suo nuovo libro, Vico dei miracoli (Rizzoli, pagg. 234, euro 20), dichiarazione d'amore per «quel cristiano secco e bassolino col bastone appuntito che attraversa ogni mattina Spaccanapoli... che se ne va sempre solo, cammina piano, e sembra un poco scartellato, come dicono qui...», è impossibile isolare Vico dai luoghi della sua esistenza perché le linee di pensiero si possono intercettare muovendo dalla biografia personale e da una narrazione fedele ai fatti. Vico si scrisse alla facoltà di Giurisprudenza senza frequentare le lezioni e cercò anche un posto fisso al Municipio di Napoli. Le condizioni finanziarie sempre precarie lo indussero ad accettare l'invito del vescovo d'Ischia a trasferirsi in un castello del Cilento per diventare precettore dei suoi nipoti. Infine, ottenne la cattedra di retorica il cui stipendio integrava con lezioni private. Quando lasciò la cattedra, a settantadue anni, cedette alla pratica del familismo, inviando una supplica a Carlo di Borbone affinché accordasse il suo posto al figlio. Quella cattedra la detennero padre e figlio per quasi un secolo. Il riconoscimento pubblico arrivò tardi e la gloria solo postuma. Peraltro, quando si intitoleranno a suo nome lapidi, statue e vie si rischierà di cadere nell'eccesso opposto, identificandolo come precursore e/o punto di riferimento di ogni ramo del pensiero moderno: dall'Umanesimo al Risorgimento, dal Romanticismo al Costruttivismo, dalla matematica alla linguistica alla pedagogia, e financo agli studi di orientamento junghiano sentiamo riecheggiare sempre il suo nome. Di certo la sua originale impronta filosofica segnerà autori come Herder, Goethe, de Maistre, Chateaubriand e Montesquieu.

Passo dopo passo, muovendosi tra garbata ironia, frasi idiomatiche, dialetto napoletano e brani dal taglio favolistico («Ascoltate come visse, cosa patì da studioso e da padre, da vivo e pure da morto, quali umiliazioni subì, quale solitudine avvertì, quali vie percorse per giungere alla visione della storia irradiata dalla divina Provvidenza»), Veneziani ci porta nei luoghi, nelle aule e nelle dimore, a partire dalla casa natale, e intercetta aneddoti che avrebbero fatto la fortuna di qualche pièce teatrale di Edoardo Scarpetta. Taluni quasi evocativi della più esilarante commedia dell'arte, come la farsa dei suoi funerali fatti due volte, con la salma rimandata a casa dopo le esequie e ripetuti il giorno dopo. Pur radicato alla cultura napoletana («ogni suo concetto sembra animare e respirare nei luoghi del sud»), Veneziani lo definisce il più grande pensatore italiano. Non è una contraddizione, tanto meno un eccesso sentimentale. Il nesso ha una sua veridicità, perché con Vico «l'ideale si cala nel reale» e la realtà alza lo sguardo alle stelle.

Fondatore moderno del pensiero metafisico e mediterraneo, d'impronta cattolica, fa da contraltare all'Europa del Nord, protestante calvinista. Proprio mentre stanno per dilagare a Napoli l'illuminismo e l'ateismo scrive La scienza nuova (1725), «ordigno inesploso» e «lume che risplende solitario rispetto ai Lumi». Se gli antichi guardavano al Fato e i moderni al Caso, Vico guarda alla mano di Dio che imbastisce disegni che non siamo in grado di cogliere. E proprio in questo senso egli riesce a mettere insieme il concetto di verità e quello del fare (verum ipsum factum). L'uomo fa la storia ma gli esiti finali non dipendono da lui. E se Cartesio ritiene la questione della verità accessibile alla conoscenza umana, Vico si oppone ritenendo il verosimile (e non la verità) accessibile alla nostra conoscenza. La sua filosofia si edifica sull'idea che il «vero» e il «fatto» si convertono l'uno nell'altro, e l'unica verità che può essere conosciuta emerge dai risultati dell'azione creatrice. Questo è il motivo per cui è concesso solo a Dio conoscere il mondo, perché Egli è Colui che lo crea continuamente, mentre all'uomo è riservato il posto minore, quello di creatore della storia. Ma ciò è anche la ragione per la quale Veneziani concede ampio spazio ai fatti privati, ai tormenti e alla vita reale.

E su questa linea è possibile dare una spiegazione ai suoi corsi e ricorsi che rappresentano l'incedere ripetitivo di fasi di progresso e di decadenza: la concezione della storia come spirale incrocia la visione lineare di matrice ebraico-cristiana e quella circolare di derivazione antica dove risuonano

gli echi dei cicli cosmici e naturali e delle antichità pagane. La storia è infatti opera dell'uomo e non si ripete. Ma noi non siamo passanti fugaci, perché abitiamo l'eterno attendendo l'alba di ciò che è intramontabile.

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