Da giovane è stata la perfetta «gauche caviar», la militante comunista capace di coniugare privilegi e agi d’una vita borghese con kalashnikov e rapine in banca. Da vispa e combattiva 62enne Dilma Roussef sogna invece di diventare il simbolo rosa del nuovo Brasile, il primo presidente al femminile di una nazione di 190 milioni di abitanti alla tumultuosa rincorsa di sviluppo, benessere e capitalismo. Una nazione capace di crescere a ritmi del 7,5 per cento e ansiosa di ospitare nel 2014 i campionati del mondo di calcio. E magari d’aggiungervi - due anni dopo - anche i Giochi Olimpici.
Nei quattro anni fatali che l’attendono Dilma Roussef dovrà, dunque, dimostrare di non essere, come sostengono i suoi detrattori, soltanto la mesta controfigura del suo mentore Lula Da Silva di cui è stata fedele capogabinetto. Dovrà mettere da parte l’animo da donna burocrate. Dovrà cercar d’imporsi come un’erede di classe e un leader di polso e di genio. Dinamicità, trasformismo e voglia di fare certo non le mancano. E non solo per la determinazione con cui ha condotto la campagna elettorale contro l’ex governatore di San Paolo Josè Serra, strappandogli al ballottaggio la vittoria con il 57% dei voti (stando agli exit poll).
La sua biografia ne è il miglior esempio. Durante una non facile esistenza - segnata da una battaglia con il cancro - la Roussef passa dalla latitanza alla sala della torture, dalla pubblica amministrazione al ministero dell’energie, dalle retrovie della presidenza alla carica di numero uno. Certo a differenza di Lula, a differenza del grande mentore e protettore, il neo eletto presidente non può vantare un passato da lustrascarpe. Prima di sviluppare un’irresistibile, adolescenziale passione per marxismo e kalashnikov Dilma è la figlioccia di un ricco commerciante, una ragazzina viziata cresciuta tra scuole private, lezioni di pianoforte e bambinaie. A trasformarla in un’insofferente «pasionaria» comunista, in una sfegatata militante armata pronta a contrapporsi al regime militare è la lettura a 17 anni di un saggio dell’intellettuale guerrigliero Regis Debrai.
Nessuno sa se la Roussef abbia veramente partecipato alla rapina che il 18 giugno del 1969 consente ai compagni della «Vanguarda Armada» di metter le mani sui 2 milioni e mezzo di dollari custoditi nella cassaforte dell’ex governatore di San Paolo Ademar Barros.
Lei nega una partecipazione diretta, ma non smentisce di aver gestito quel bottino, di aver custodito le armi della banda, di esser stata un’attivista capace non solo di predicare, ma anche di sparare. Non a caso quando - nel gennaio 1970 - le mettono il sale sulla coda i suoi aguzzini la spediscono per 22 giorni nella camera delle torture. Non a caso quando - nella seconda metà degli anni 70 - entra nelle fila dell’opposizione legale alcune testate come «O Estado de São Paulo» continuano a definirla «uno dei 97 sovversivi» infiltrati nella pubblica amministrazione.
A dar retta al neo eletto presidente quella è acqua passata. Del resto per evitare il sospetto di simpatie per i nostalgici della lotta armata Dilma Roussef non esita a promettere la consegna di Cesare Battisti, il terrorista nostrano arrestato a Copacabana nel marzo 2007 e mai estradato in Italia. «Si dovrà applicare la decisione del Supremo Tribunale Federale», preannuncia lo scorso 24 giugno facendo riferimento al via libera all’estradizione concesso dalla massima assise giudiziaria brasiliana. La dichiarazione - influenzata forse dal timore di venir accomunata a quel rapinatore assassino -rappresenta l’unico smarcamento dalla linea politica del presidente Lula.
Un presidente che, a dar retta alle malelingue, avrebbe cinicamente previsto di prestare per 4 anni la poltrona alla propria allieva per superare il divieto costituzionali al terzo
mandato. Un presidente che ancora oggi raccoglie l’80% dei consensi e sognerebbe di usare l’intervallo rosa della Roussef per prepararsi al gran ritorno.Da oggi tocca alla sua ex donna di fiducia cercare d’impedirglielo.
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