Il virus di Fini sta sfasciando il Pdl

Il presidente della Camera gira per le tv e giura di essere leale a Silvio, ma il suo tatticismo paralizza la maggioranza Invece di pensare al federalismo, alla giustizia e al taglio delle tasse, oggi si discute solo della poltrona di Bocchino. Se questi 3 anni saranno uno stillicidio di litigi tra separati in casa, meglio le urne

Il virus di Fini sta sfasciando il Pdl

L’Italia, in una primavera senza sole, passa i pomeriggi a discutere delle sorti dell’onorevole Italo Bocchino. Questo è il capolavoro politico di Gianfranco Fini, cofondatore del Pdl e presidente della Camera eletto con una maggioranza che lui definisce «con la bava alla bocca». L’errore di Fini è pensare che tutto sia sotto controllo. La politica, però, non si gioca solo a tavolino. Non è una sorta di «tetris» dove basta incastrare le tessere e ragionare sulle prossime mosse. Fini e i suoi dicono che sono leali e fedeli. Ogni volta che parlano del partito si mettono una mano sul cuore e giurano che loro sono pidiellini nell’animo, se fanno un po’ di casino è per il bene della democrazia, della destra, perfino di Berlusconi. Può darsi. Quello che però si vede, qui, da lontano, è un Pdl in crisi di identità, incartato, con le mani legate, costretto a sedute di psicanalisi, lontano dalle questione vere, dalla politica, dal cuore dei suoi elettori.

Un vecchio proverbio dice che le vie dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni. Allora non ha senso chiedersi se Fini sia in buona o cattiva fede. Non importa. Non è rilevante. Quello che pesa sono le conseguenze delle sue azioni. Il Pdl in questo momento non è impegnato con la giustizia, il federalismo fiscale, il presidenzialismo, il welfare. Non sta pensando alla crisi o alla riduzione delle tasse. Non sta neppure pensando a trovare una soluzione per gli immigrati che, espulsi dal mercato del lavoro, non hanno più un permesso di soggiorno. Nulla di tutto questo. Nulla neppure dei temi che sono cari a Fini. Di cosa si parla, invece? Delle dimissioni di Italo Bocchino da vice capogruppo. Si parla della sua richiesta di azzerare le cariche parlamentari alla Camera. Si parla di Italo Bocchino che chiede le dimissioni di Cicchitto. Ecco, questo è il costo dell’affare Fini. La paralisi della politica, ingabbiata nei tatticismi di basso profilo di una corrente minoritaria, che sogna di diventare partito, ma non ha la forza per farlo.

C’è qualcosa che non va in questa destra moderna. È lontana dal buon senso. Sta giocando una partita che la maggioranza degli elettori non capisce. La interpreta come un capriccio, come uno scontro di potere, come un’insofferenza che si lascia alle spalle senso di responsabilità e lealtà. Fini è bravo, quando va in televisione spiega con chiarezza le sue ragioni alte e nobili, ma giorno per giorno, nella grigia quotidianità, le sue parole volano rasoterra. E tutto finisce nella solita difesa di poltrone e poltroncine.
Lo strappo finiano è un virus che sta già sfibrando questa maggioranza.

La Lega dice che se continua così, se tutto ruota intorno all’onorevole Bocchino, se le riforme vengono messe da parte, se si cavilla sul federalismo, se si parla di capigruppi e vice-capigruppi, se questi tre anni passeranno come uno stillicidio di litigi e sottoterfugi da separati in casa, allora meglio lasciar perdere tutto, meglio non farsi del male. Meglio le elezioni.
Fini sostiene che le elezioni lui non le vuole. Allora non diffonda il virus. Altrimenti il Pdl deve trovare, in fretta, gli anticorpi. Di finismo forse non si muore. Ma si sta male.

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