La vita di Terzani raccontata per immagini

Sbarca venerdì sul grande schermo il film «La fine è il mio inizio» che racconta la vita dell'inviato del «Corriere della sera» stroncato a soli 66 anni da un male incurabile. Una pellicola delicata che al termine dell'esistenza ricorda i valori della vita e della speranza

È un film che sa di morte «La fine è il mio inizio» ma, se il racconto di un'esistenza - quella del giornalista e scrittore Tiziano Terzani (1938-2004) - si articola nelle ultime settimane dell'inviato del «Corriere della sera», la pellicola ha anche il profumo della vita. E soprattutto della speranza. Un'ora e mezzo di dialoghi. Continui. Ininterrotti. Interessanti. Il viaggio è mentale. Filtrato attraverso le rievocazioni, con il piglio e l'interpretazione di chi quei ricordi li filtra attraverso il proprio modo di sentire. E di vedere. E, a suo modo, ne ha tratto insegnamenti. Preziosi quanto unici. Il mondo orientale. Il sentimento dei popoli in rivolta, che, proprio in questi ultimi giorni, conferisce a quei fotogrammi un loro valore di attualità che rende il film - in uscita venerdì 1 aprile - estremamente significativo.
Non conta la rivoluzione, sostiene Terzani giunto ormai alla fine della sua vita per colpa di un male incurabile «conta la rivoluzione dentro di noi, quella che ognuno fa all'interno del suo animo». Ed è forse questo l'insegnamento più grande che si ricava da un'opera che forse faticherà a incontrare il grande pubblico, perché diretta a una platea più ristretta, fatta da coloro che conoscono Terzani, se non di persona, almeno di fama. E hanno consapevolezza di cosa ha voluto significare la sua esistenza e il suo ruolo umano e professionale. È forse questa «rivoluzione dentro di noi» il motivo di speranza che viene lasciato in eredità a chi investe novanta minuti del proprio tempo e qualche euro nella visione della «Fine è il mio inizio». Una pellicola che sa di morte, l'ombra che incombe sulle ultime parole di Terzani lasciate in dono al figlio che sembra aver voluto accantonare ogni altro aspetto della sua gioventù per non perdere neanche un sussulto della sua vita insieme al padre, ormai al crepuscolo.
E ha il sapore della vita proprio negli ultimi mesi, quando l'addio sembra vicino ma non c'è la drammaticità e la disperazione per un evento che tutti ormai, in famiglia, sanno per imminente. Il dolore è la lucida manifestazione di un affetto che per l'uomo si fa più cocente al momento della perdita. Non è invece il dramma fine a se stesso della morte vista come qualcosa di irreparabile. E il sapore della vita si mescola tra lo scomodo e imbarazzante incrocio di un uomo che va lentamente spegnendosi mentre la figlia, lontana, sta per dare alla luce il suo primo bambino. È il sapore di una vita alla quale lo scrittore si avvinghia con tutte le forze che gli rimangono e gli consentiranno di conoscere quel nipotino, del quale la sorte gli proibirà poi di prendersi cura e di vederlo crescere. Ed è ancora il sapore della vita a fargli dire con un tocco di ironia «potrei andarmene un minuto prima e reincarnarmi in lui un minuto dopo». Un incredibile atto d'amore che, pur in una fase estrema, lo spinge a volersi radicare ancora di più negli affetti familiari e terreni dai quali il male lo sta allontanando per sempre.
Il film di Jo Baier, una produzione italo-tedesca, distribuita da Fandango, non è una pellicola per tutti (si è detto) e lo dimostrano i rifiuti dei festival di Roma e Venezia che nondimeno non diminuiscono il valore di un'opera ben al di là di se stessa e forse anche del personaggio che tratteggia.

Un Bruno Ganz di alto spessore, affiancato da Elio Germano nei panni del figlio, una sorta di intervistatore e interlocutore su cui si appoggia la narrazione e di una splendida Andrea Osvart (la figlia) con una partecipazione ridotta ma significativa, come quella di Erika Pluhar nei panni della moglie di Tiziano Terzani, autore del volume che dà il titolo anche al film.

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