Il vizio di Prodi? Decidere di non decidere

Intervistato da Renato Farina, Gianfranco Fini non si è fatto certo pregare per dire la sua su Romano Prodi. Gli ha dato, pensate un po’, dell’asino. Ma il presidente di Alleanza nazionale non intendeva recare offesa al Professore bolognese, che sotto quella sua aria bonaria è piuttosto suscettibile e non scorda nulla in vista di vendette al momento opportuno. No, l’asino del quale ha parlato Fini non è sinonimo di somaro. Ossia di ignorante, incapace e di scarso profitto negli studi: qualifiche che mal si adattano a un professore universitario come il Nostro. È sì un asino, ma l’asino di Buridano.
Questo filosofo francese, vissuto nella prima metà del Trecento, in etica riconobbe l’autodeterminazione della volontà umana. E i suoi detrattori per criticarlo addussero l’argomento di un asino incerto tra due medesimi cibi di eguale quantità che avesse davanti. In assenza di un elemento determinante, non sarebbe in grado di compiere una scelta e il poveretto morirebbe d’inedia. Ecco, Fini ha voluto stigmatizzare il fatto che Prodi ci appare un uomo indeciso a tutto. Con il risultato che prima o poi, qualora dovesse vincere le elezioni, la pagherà assai cara. A questo punto qualche chiosa non guasta. Intendiamoci, non è da escludere che il Professore sappia quel che vuole. Anzi, la cosa è altamente probabile. Ma non può dirlo coram populo. Altrimenti sarebbe costretto a gettare la spugna.
Tutto è nato da quelle maledette primarie che lo incoronarono leader della coalizione di centrosinistra. Una sonante vittoria, sicuro. Ma di chi? La verità è che ognuno ha dato la risposta che più gli conveniva. Da un lato Prodi si è messo in testa la corona d’alloro nella convinzione pulcinellesca di aver fatto un gran numero di prigionieri. Mentre dall’altro i partiti di centrosinistra, convinti di essere stati soprattutto loro a propiziare questo successo, si sono sentiti così poco prigionieri che non lo hanno lasciato andare più di tanto.
Insomma, non hanno inteso iscriversi all’Avis, la benemerita associazione dei donatori di sangue, né recitare la parte dei gregari che passano la borraccia d’acqua al sedicente Campionissimo. Questo equivoco ha prodotto frutti avvelenati. Prodi avrebbe voluto presentarsi alla Camera in tutte le circoscrizioni come leader della coalizione, e l’Ulivo gli ha detto picche perché i suoi leader non ci stanno a essere qualificati, o per meglio dire squalificati, figli di un dio minore. Prodi avrebbe voluto più fondi per la sua campagna elettorale, ed è stato indotto a più miti consigli perché la moltiplicazione dei pani e dei pesci non è di questo mondo.
Ma il meglio del peggio Prodi lo sta dando nella elaborazione del programma. Ed è su questo che Fini ha avuto buon gioco portando ad esempio il caso delle dimostrazioni in Val di Susa a proposito del treno ad alta velocità. Né sull’una né sull’altra questione Prodi si è pronunciato in maniera netta. Ha preferito, come al solito, fare il pesce in barile. Pessimo incipit per un aspirante presidente del Consiglio. Ossessionato dal voto della Camera che nell’ottobre 1998 lo sloggiò da Palazzo Chigi, teme il bis. E così già abbraccia la filosofia spicciola dell’Andreotti del tempo che fu. Pure lui è portato a concludere che è senz’altro meglio tirare a campare che tirare le cuoia. Ma, ammesso che questo esercizio di equilibrismo gli riesca davvero, che cosa mai ci possiamo aspettare se non l’impotenza al potere? Una sola volta ha detto con nettezza la sua.

Fu quando promise lacrime e sangue, e venne redarguito in malo modo da Bertinotti. Da allora l’immobilismo è la cifra del suo modo d’intendere la politica. E questa è davvero bella, visto che fa politica solo chi decide. È come pretendere di fare le nozze coi fichi secchi.
paoloarmaroli@tin.it

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