"Volevamo difendere dei galantuomini che erano rimasti soli"

Con Lodovico Isolabella è uno degli autori della lettera-testimonianza: "La borghesia moderata era sparita"

"Volevamo difendere dei galantuomini che erano rimasti soli"

«Il clima era quello. Quando Calabresi venne ucciso, io che ero capogruppo democristiano in consiglio comunale, proposi che gli venisse attribuita la medaglia d'oro. Fu una discussione di dieci ore ma non ci fu niente da fare. Il sindaco, che era il socialista Aldo Aniasi, non ne volle sapere. Il Pci idem. Calabresi non poteva essere rispettato neanche da morto. Figuriamoci da vivo».

Sono passati cinquant'anni, e Massimo De Carolis la lettera che insieme al suo collega di partito Lodovico Isolabella scrisse in difesa dei magistrati che si occupavano del caso Pinelli, e che il Giornale pubblica oggi, se la ricorda bene. «Non ero particolarmente amico né di Caizzi né di Amati. Ma quella lettera si rese necessaria perché insieme al linciaggio pubblico contro Calabresi, additato come assassino di Pinelli, era partita una campagna violenta anche contro i magistrati colpevoli di avere concluso che Pinelli si era effettivamente suicidato. Caizzi e Amati, che erano due galantuomini, si erano ritrovati soli. E questo era una costante di quegli anni: la terrificante debolezza della borghesia moderata, una classe che aveva costruito la città e che sembrava fosse sparita. L'unica voce che si sentiva a Milano era quella della sinistra estremista e degli intellettuali che le andavano dietro. I milanesi moderati erano brave persone, ma la Camilla Cederna se li mangiava in un boccone. Il suo libro sulla morte di Pinelli, Una finestra sulla strage ebbe un peso decisivo nella criminalizzazione di Calabresi. Io avevo la scorta, e il mio agente era amico di quello che scortava la Cederna. E gli raccontò che il giorno in cui Calabresi venne ammazzato la Cederna pianse tutte le sue lacrime. Sapeva di averne una parte di colpa».

Lei conosceva Calabresi?

«Ero amico sia suo che del suo capo, Antonino Allegra, perché mi avevano salvato dal sequestro organizzato dalle nascenti Brigate Rosse, trovando in tempo il covo dove avrei dovuto essere tenuto prigioniero. Ho assistito in diretta al massacro mediatico quotidiano, martellante, cui vennero sottoposti. Le conclusioni dell'indagine di Caizzi e Amati, che li scagionava, era come se non ci fossero state, anzi erano la prova della complicità dello Stato. Sparare su Calabresi era come sparare sulla Croce Rossa, perché quelli che avrebbero dovuto difenderlo erano isolati e inermi di fronte a questa ondata».

Era una Milano plumbea.

«Ogni sabato i cortei spaccavano tutto e cercavano di assaltare la sede del Corriere. Il direttore Spadolini nel fine settimana si trasferiva a Roma per paura degli attacchi alla redazione. Andò a finire che lo licenziarono e lo sostituirono con Piero Ottone, che era un fuoriclasse e che ai contestatori sapeva fare l'occhiolino».

Secondo lei cosa successe in questura la notte in cui morì Pinelli?

«Io non c'ero, ma due cose le so per conoscenza quasi diretta. La prima è che la testimonianza di Cornelio Rolandi, il tassista comunista che aveva incastrato Valpreda per la bomba di piazza Fontana, era nata in modo genuino. Fu un mio collega di partito, il professor Paolucci, che per caso aveva preso il suo taxi, a raccogliere lo sfogo di Rolandi. Pensi che quello lì l'ho portato io alla banca, era agitato, mi ha fatto fare un giro dell'ostrega. Fu Paolucci a dire a Rolandi che non poteva tenersi quel peso addosso, che era suo dovere andare in questura e raccontare tutto».

E l'altra cosa qual è?

«Il vicequestore Allegra era un siciliano di poche parole. Il ministero degli Interni decise di toglierlo dall'Ufficio Politico di Milano e lo spedirono a dirigere un posto di polizia alla frontiera con la Svizzera. Era chiaramente una punizione.

Lui venne da me e disse: io sono un povero poliziotto e lei è l'unico in questa città che mi ha difeso. Allora voglio dirle che una capacità so di averla: so riconoscere quando un alibi è falso. E l'alibi di Pinelli era falso».

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