Poche frasi di D’Alema - «mi occuperò del partito», «avete polemizzato contro di me quando ero assente» - hanno rilanciato l’i-dea che l’eterno duello con Veltroni conoscerà nuove puntate. L’unico errore che non si deve commettere, nell’interpretare la disfida, è quello di consegnare il tutto all’antipatia reciproca. Fra Walter e Massimo da tempo non scatta la chimica. Si detestano. L’uno pensa che l’altro sia un incapace gonfiato dai media (tesi D’Alema), l’altro racconta che il suo rivale è un politico di vecchio conio (Veltroni). Fino a che sono stati insieme nei Ds le differenze sembravano sormontabili. L’uno, D’Alema, politico di lungo corso, l’altro, Veltroni, sognatore con gli artigli. In fondo sembravano riprodurre l’antico schema fra riformisti e massimalisti, ovvero fra socialisti pragmatici e anarco-socialisti. Entrati entrambi nel partito, il Pd, che avrebbe dovuto riscattarli dall’antica origine comunista, i due hanno scoperto che le differenze non erano più caratteriali, relazionali, umorali ma interamente politiche. L’uno, Walter, ingolfato nell’idea del partito unico democratico che dovrebbe salvare il Paese dal berlusconismo trionfante. L’altro, Massimo, che pensa di costruire una forza socialista mascherata in grado di competere, ma anche di dialogare, con il capo del centrodestra.
Ma che cosa ha creato la scintilla che scatenerà nel Pd la più dura battaglia? Veltroni ha lanciato il sospetto che il gruppo dalemiano sia colluso con il nemico. I dalemiani hanno un sospetto più corposo. Temono che il caso Latorre e la vicenda Villari stiano scatenando una sorta di epurazione dei dalemiani. C’è del vero nelle paure dei seguaci di Massimo.
Il dalemismo è una delle correnti più identitarie della sinistra. Nel nome del leader si è aggrumata una vasta area che ha lasciato il comunismo con convinzione ma con dolore, che considera la politica l’arte delle alleanze, che pensa che c’è del vero in quello che mobilita l’avversario. D’Alema oggi è la sinistra. Dopo la caduta di Bertinotti, nell’impossibilità di fare di Luxuria l’icona della sinistra, quel mondo si è avvinto a D’Alema e lì trova le ragioni della propria sopravvivenza. Il veltronismo è l’«oltrismo» più scatenato. È la politica disegnata all’incontrario sul volto dell’avversario. Ciò che piace a lui, non piace a noi. Di qui l’alleanza con Di Pietro, le simpatie giustizialiste, il movimentismo portato all’estrema potenza.
Due anime che potrebbero convivere, ma l’idea di D’Alema è che Veltroni non voglia la convivenza e lavori per la soluzione finale. D’Alema ha capito, o crede di aver capito, che il nuovo corso veltroniano vuol trasformare il dalemismo in una riserva indiana, in una specie di Bantustan dove si radunano i nostalgici di ogni risma, socialisti, ex comunisti, democristiani con senso pratico, per poterli più facilmente isolare e decimare.
L’attacco a Latorre è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso, l’incidente di Sarajevo che trasforma la guerriglia in guerra totale. Latorre è una persona simpatica, un uomo intelligente senza il quale D’Alema non riuscirebbe a gestire un complesso reticolo di rapporti. Latorre è D’Alema. L’attacco a Latorre viene vissuto da D’Alema come un attacco diretto. E l’attacco a Latorre è stato duro, definitivo, delegittimante. Assieme all’attacco a Latorre c’è stata l’infamia di far passare l’elezione di Villari come una manovra combinata fra il centrodestra e i dalemiani. Per Massimo si è varcato il segno. D’Alema ha capito che era in gioco la propria onorabilità politica, che con l’attacco a Latorre e il caso Villari si voleva far introiettare nel mondo dell’opposizione l’idea di inaffidabilità della sua leadership. Qui si è chiuso il cerchio. Massimo ha troppa voglia di politica per farsi chiudere in un Bantustan o in una riserva indiana. Pensa che la strategia di Veltroni, dissipatore degli alleati, conflittuale oltre ogni soglia con Berlusconi, fomentatore di agitazioni scomposte, può portare la sinistra oltre ogni sconfitta immaginabile. D’Alema si è fatto due conti e ha capito che con il partito veltroniano la sinistra non andrà mai più al governo. Ma, soprattutto, ha intuito che nel partito che lui ha fondato si stanno restringendo gli spazi di agibilità democratica. Con questo Veltroni il dalemismo rischia di diventare la caricatura che ne fa Travaglio. Di qui la reazione.
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