Il carnevale di Némirovsky fra tate, ironia e rimpianti

I primi racconti della scrittrice francese sono all'insegna del divertimento. Si firmava "Popsy"...

Il carnevale di Némirovsky fra tate, ironia e rimpianti

Nonoche dalla chiaroveggente, che si fa leggere la fedeltà dell'uomo amato nell'albume di un uovo sbattuto in un bicchiere, protesta per il costo dell'uovo (un franco e cinquanta) e si sente rispondere: «La vita è cara... e l'uovo deve essere di una freschezza eccezionale». Nonoche che giura all'amica Louloute: «Ah, di' quello che vuoi, cara mia, io non sono né superstiziosa né credente»... Nonoche e l'amica che vanno al Louvre, un pomeriggio, «visto che piove e non abbiamo niente da fare» e la prima ha un fidanzato pittore, che sostiene lei ci azzecchi con l'arte «come un'ostrica in una collana di perle». E allora le due amiche osservano la Nike di Samotracia e non capiscono che cosa sia, perché sembra una donna, ma è senza testa, e quindi ipotizzano che sia una sfinge; poi osservano le donne nude di Rubens - «Ma guarda le tette! E che gambe corte! Le ginocchia da vitello! I piedi arrossati! Il sedere che tocca terra come uno strascico» - e deducono che, beh, «non doveva essere dura mantenersi, all'epoca, se gli uomini si accontentavano di pollastre del genere»... Nonoche, la parigina frivola sempre a caccia di uomini che apre Il carnevale di Nizza e altri racconti (Adelphi, pagg. 310, euro 19; a cura di Teresa Lussone) non pare quasi nemmeno un personaggio di Irène Némirovsky; eppure è proprio lei che la scrittrice consegna alle stampe per il suo esordio, il primo agosto del 1921, sul quindicinale Fantasio. In tutto, quattro piccole pièce, delle specie di sit-com ante litteram, che la stessa Némirovsky definisce «infantili e allegre», e infatti le firma «Popsy», che sta per «Topsy», il soprannome che le ha dato la governante inglese e che significa «sbadata, scervellata». Un po' come Nonoche, con la distanza ironica del caso...

Anche Iréne Némirovsky, insomma, è stata un po' «Topsy», una ragazza senza troppi pensieri, almeno per un periodo: «Non crediate... che la mia adolescenza sia stata solo aule studio ed esami» avrebbe confessato in una intervista, citata da Teresa Lussone nella sua postfazione. Scoprire questo lato «leggero» della scrittrice è uno dei piaceri di questa raccolta, che comprende diciassette racconti scritti fra il 1921 e il 1937, ovvero fra quando Némirovsky ha diciotto anni (è nata a Kiev nel 1903) e fino a cinque anni prima della sua morte ad Auschwitz (nell'agosto del 1942). I primi quattro, con protagonista Nonoche, sono puro divertimento; segue poi una serie di racconti in stile cinematografico, con tanto di indicazioni di scena; I fumi del vino è ambientato nella Finlandia dello scontro civile del 1917 e vede scorrere, oltre al sangue, ettolitri di alcol, saccheggiato dalla folla ubriaca nelle cantine imperiali. La Finlandia è stata una delle tappe dell'esilio della famiglia di Iréne: con l'arrivo al potere dei bolscevichi, il padre Leonid, un uomo d'affari benestante ed ebreo, finisce sulla lista nera dei rivoluzionari e così da San Pietroburgo (diventata Pietrogrado), i Némirosvky scappano prima in Carelia, poi in Svezia e infine in Francia. Nel 1919, Iréne è a Parigi, in un appartamento a due passi dagli Champs-Élysées; due anni dopo si iscrive alla Sorbona e, per la prima volta, pubblica un racconto, Nonoche dalla chiaroveggente. È l'esordio breve di quella che poi sarà considerata (in vita e dopo) soprattutto una grande romanziera, dal suo capolavoro Suite francese in giù.

Nella raccolta ci sono poi storie dai toni molto più némirovskiani (anche se l'ironia feroce è un tratto delle opere successive, come David Golder, tanto da procurare l'accusa a lei, ebrea, di antisemitismo), come Una colazione in settembre o Il carnevale di Nizza, dove a dominare è soprattutto un senso di rimpianto e le due protagoniste, seppure molto diverse, si immergono nel pensiero di un'altra vita possibile, oltre le prigioni di una società che definisce ruoli, desideri, relazioni, amori... E poi c'è La Njanja, un ricordo della tata amatissima (il rifugio della giovane Iréne, che patisce una madre distante), costretta come la famiglia a lasciare la Russia: «Veder morire la Njanja sembrava altrettanto impossibile quanto veder scomparire il castello, il parco e lo stagno. Eppure, un bel giorno, tutto ciò fu distrutto - secoli di grandezza, uomini buoni o cattivi, vecchi oggetti antiquati e affascinanti - tutto il passato. La Rivoluzione che è sempre inattesa, proprio come la morte, si era abbattuta sulla Russia».

A differenza degli altri, che sembrano riuscire a vivere anche nel mondo francese, così diverso, la Njanja non può dimenticare nulla di quel passato. E, forse, nemmeno la scrittrice Némirosvky può farlo. Infatti a chiudere la raccolta è l'incompiuto I giardini di Tauride, presentato per la prima volta in volume e con le annotazioni della stessa autrice. Ecco le sue riflessioni sulla protagonista, la piccola Élisabeth: «Non sono il mio genere, le bambine innocenti... Bisognerebbe trovare in me, nei miei ricordi, nelle mie immagini, il momento esatto in cui ho cominciato a intravedere l'amarezza della vita.

Credo che la verità sia la vita percepita a tratti, e per il resto l'intorpidimento delizioso della prima infanzia, il momento in cui si è ancora per metà immersi nelle dolci tenebre interiori. E se la morte potesse somigliare a questo nulla».

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