
Comune sciolto per ’ndrangheta, ex sindaci (pro)sciolti dal giudice. Dalla rossa Emilia-Romagna arriva un’altra sentenza della magistratura che farà discutere. La Gup del tribunale di Bologna Roberta Malavasi ha deciso il non luogo a procedere, con la formula «perché il fatto non sussiste», per gli ex sindaci Pd di Brescello (Reggio Emilia) Giuseppe Vezzani e Marcello Coffrini, che erano accusati di concorso esterno in associazione mafiosa.
Il Comune reso famoso dalla saga Don Camillo e Peppone di Giovannino Guareschi era stato sciolto il 20 aprile 2016 dal Consiglio dei ministri per 18 mesi, termine poi prorogato fino ad aprile 2018, dopo le infiltrazioni della ’ndrangheta scoperte dall’inchiesta della Dda nell’inchiesta «Grimilde». Al processo per i due ex amministratori gli imputati erano 12, tra cui alcuni membri della famiglia Grande Aracri, clan crotonese già assurto agli onori della cronaca giudiziaria per aver contribuito a inquinare la vita politico-amministrativa di Reggio Emilia, altro comune a guida Pd. Rosita Grande Aracri, figlia di Francesco e nipote del potentissimo boss Nicolino, ha scelto il rito abbreviato, gli altri nove hanno concordato patteggiamenti con pene dai nove mesi ai quattro anni. Proprio a Reggio Emilia il Pd si era salvato grazie alle manovre dell’ex procuratore Marco Mescolini, legato a Md e finito nelle chat di Luca Palamara, le cui discutivili decisioni di risparmiare alcuni politici dem furono denunciate dagli stessi pm che lavoravano con lui. Cacciato dal Csm e finito a Firenze, il magistrato è stato recentemente «riabilitato» dal Consiglio di Stato, buon per lui.
La pm della Dda Beatrice Ronchi, profonda conoscitrice della ’ndrangheta per aver lavorato a lungo in Calabria, aveva chiesto per entrambi gli ex sindaci di Brescello il rinvio a giudizio. Ma secondo la Gup la ricostruzione dell’accusa non regge. Non solo Vezzani e Coffrini - senza farne parte - non avrebbero auitato le cosche a realizzare i propri obiettivi, non se ne sarebbero proprio accorti. È stata quindi accolta la tesi delle difese di Coffrini e Vezzani, difesi rispettivamente dagli avvocati Mario L’Insalata ed Eleonora Ciliberti e da Alessio Fornaciari e Valeria Miari. «Coffrini è imputato solo per aver manifestato liberamente il proprio pensiero e aver sostenuto che non tutti i brescellesi erano mafiosi e che in paese non si avvertiva in modo pressante la presenza della ‘ndrangheta», è stata la linea difensiva dell’ex primo cittadino. Più sensibile al problema il suo collega Pd, che aveva chiesto «con delibere di giunta» la certificazione antimafia con la Prefettura e protocolli per la legalità con altri Comuni e aveva ammonito i suoi tecnici di «stare attenti alle persone con cui avevano a che fare», anche se con una lettera aveva apertamente difeso la comunità calabrese da alcuni articoli di stampa che la accostavano alla cosca Grande Aracri.
Se lo strumento dello scioglimento appare pesantemente in discussione dopo alcune recenti rivelazioni, vedi quella dell’ex prefetto di Roma Franco Gabrielli su Mafia Capitale («Sciogliere il Campidoglio ci sarebbe costato il 2% del Pil») è bizzarro pensare che dalle inchieste Aemilia e altre sulla penetrazione della ’ndrangheta nella regione rossa, il Pd che da quelle
parti governa indisturbato da ormai ottant’anni è rimasto pulito, come fosse ignaro di ciò che avveniva. Altrove altri politici di altri schieramenti hanno subito sorti diverse, persino in Emilia-Romagna. Coincidenze, certo.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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