"Il demone in noi" mette il bastone fra le ruote anche all'amore

Un buono a nulla con cattive compagnie e una fanciulla dal cuore grande nella Istanbul di Atatürk

"Il demone in noi" mette il bastone fra le ruote anche all'amore
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Con quel titolo, Il demone in noi, quei personaggi e quel contesto, è impossibile non pensare ai Demoni di Dostoevskij. Là c'era un gruppo di giovani rivoluzionari-nichilisti, confluito nella cerchia di Verchovenskij, e qui ne abbiamo un altro, coagulato intorno a tre o quattro cattivi maestri. Là avevamo, fra tanti indemoniati, Stavrogin, il più problematico, oscuro, vile, appesantito dal macigno che porta sulle spalle, e anche qui, da una sorta di elitaria e serpeggiante cellula eversiva, emerge una figura problematica, oscura, vile, senza scheletro nell'armadio, è vero, ma perché lo scheletro è lui stesso. Non siamo nei pressi di Pietroburgo intorno al 1870, ma nella Istanbul degli anni '30 del Novecento, e lo Stavrogin turco si chiama Ömer. Sui venticinque anni, studia filosofia e intanto lavora alle poste (nei rari giorni in cui si alza dal letto in tempo per andare in ufficio...), e di sé offre questo ritratto all'amico Nihat: «Non voglio niente. Non c'è nulla che mi attragga. Ho la sensazione che ogni giorno che passa divento più miserabile, e ne sono contento. Forse prima o poi finirò per essere così indolente da non riuscire neanche più a stare male. Ma bisogna fare qualcosa, in modo che... o forse non bisogna fare niente. Mi dico: cos'è che possiamo fare? Niente! In questo mondo vecchio di milioni di anni, l'oggetto più antico ne ha ventimila. E pure questo è un numero un po' insignificante, no?».

Il demone in noi, di Sabahattin Ali, proposto nella prima traduzione italiana, di Nicola Verderame, da Carbonio Editore (pagg. 284, euro 18,50), letto in filigrana è uno spicchio di storia della Turchia ai tempi del supernazionalista Mustafa Kemal Atatürk, primo presidente del Paese dal 1923 al 1938. A scriverla è un autore nato nel 1907 e in odor di comunismo, e per questo ucciso il 2 aprile 1948, probabilmente dal contrabbandiere che avrebbe dovuto farlo espatriare in Bulgaria. Nell'introduzione, Verderame fa nomi e cognomi dei personaggi fittizi e dei corrispondenti interpreti reali, chiarendo il quadro della situazione, ma si sofferma anche sugli aspetti stilistici di Ali e sulle influenze letterarie cui ricondurlo. Letto invece non in filigrana, ma dalla giusta distanza dei sentimenti, il romanzo è una storia d'amore irrisolto. Sbocciato per caso su un vaporetto e appassito tra i fogli di una lettera d'addio.

Lui è ovviamente Ömer, e lei è Macide, diciottenne, un talento per la musica e una famiglia tossica. Il colpo di fulmine piomba su di lui, e rimbalza su di lei a scoppio ritardato, quando la ragazza decide di donarsi completamente al primo uomo della sua vita. Anzi, al secondo. Perché quando era poco più che una bimba, il maestro di pianoforte Bedri era entrato nel suo cuore senza che lei se ne accorgesse, come uno spartito scivolato sotto la porta della sua stanza. Niente sesso, su Macide aveva agito soltanto (ma è molto) la fascinazione per una persona sensibile e matura, anche se maggiore di lei di pochi anni.

Quanto al versante politico-sociale, eccolo sintetizzato da Bedri (che parla per conto di Ali): «Persino al giorno d'oggi un pensiero illuminato può essere intorbidito in un istante con un paio di formule misteriose ed enigmatiche, qualche metafora religiosa e due o tre espressioni oscure, proprio come fanno i fanatici più ignoranti e imbroglioni per darla a bere a chi li circonda».

Al quale potrebbe fare eco (da una lettera del 1870) il caro vecchio Dostoevskij: «Ma sa che ogni tanto mi viene in niente che molti di questi stessi giovani delinquenti, che vanno attualmente in putrefazione, finiranno un giorno per diventare degli autentici e solidi pocvenniki, e cioè dei veri russi?».

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