
C'è un disertore senza nome che fugge da una guerra senza nome. La sua esistenza è ormai tutta sensazioni, perché il conflitto ha asportato dalla sua vita qualsiasi cosa sia superflua, in mente gli resta solo un progetto furibondo, come una febbre: «Potresti nascondere il fucile e le cartucce da qualche parte, e diventare un mendicante, lasciare anche il coltello, che i mendicanti non ce l'hanno un pugnale, gli scarponi che puzzano di merda e andare a piedi nudi, la giacca color miseria e andare a torso nudo...».
E c'è un professore di matematica, Paul Heudeber, a cui viene dedicato un convegno dopo la sua morte. Era un uomo che, nonostante crisi e lisi, non ha mai defezionato dal suo ideale comunista, che lo ha sostenuto nella lotta contro i nazisti. È rimasto incastrato dentro gli ingranaggi della Ddr, anzi li ha condivisi non accettando mai la logica della defezione, semmai fuggendo solo nello spazio dell'astrazione, dove i numeri inseguono l'infinito. E nella precisione del racconto di un gruppo di intellettuali emerge una figura che incarna molte delle troppe contraddizioni del Novecento.
Questo il lettore può trovare nel nuovo libro Mathias Enard, Disertare (e/o, pagg. 218, euro 18,50), che l'autore racconterà al pubblico all'interno di Book Pride domani (alle 17 in sala Ottawa).
Un romanzo bipartito anche linguisticamente che si inserisce perfettamente nella ricerca stilistica tipica di Enard, che in romanzi come La perfezione del tiro o Zona ha sperimentato moltissimo sull'uso della lingua. Gli abbiamo chiesto come sia nata l'idea di un romanzo con due parti all'apparenza così separate ma che si parlano attraverso rimandi quasi invisibili. Ha risposto al Giornale: «Nella mia mente è iniziata prima la storia di questo immaginario matematico attraverso cui volevo raccontare il Ventesimo secolo visto retrospettivamente, da oggi. Una narrazione molto storica, fatta dalla figlia del matematico, Irina, la lingua è quella propria di un gruppo di intellettuali, la figlia è una storica di formazione anche se racconta di suo padre... Ma mi mancava un lato più diretto per raccontare una delle componenti del Ventesimo secolo, ovvero lo spazio tra pace e guerra che lo ha caratterizzato. Un livello differente più legato ai sensi. Scrivendo sentivo la necessità di raccontare la guerra e la pace in modo diretto, senza il filtro di un personaggio con un nome e una storia, senza il filtro di un luogo identificabile. E così ho affiancato la storia di questo disertore, della donna che incontra e dell'asino, e le ho affiancate capitolo dopo capitolo, due forme diverse per vedere la stessa cosa...».
Le due parti così diverse, lo sono anche nell'uso della punteggiatura - tradizionale nella narrazione sul matematico, solo con virgole e la cesure visive degli a capo nelle parti del militare in fuga - sono un funambolismo riuscito che molti autori non saprebbero permettersi. Ma il funambolo racconta questo equilibrismo come molto spontaneo. Dice Enard a il Giornale: «È come viaggiare attraverso le parole, per me l'esplorazione del linguaggio, come diceva Roland Barthes, è quella che ci da il piacere del testo. I personaggi non sono soltanto nomi o storie, sono carne fatta di parole, i personaggi sono anche lo stile con cui li racconti. Quindi è naturale che personaggi diversi producano narrazioni che hanno stili assolutamente diversi, perché provano sensazioni diverse».
E se il soldato, il cui mondo è tutta sensazione, sceglie la vita e quindi la fuga dalla guerra, l'intellettuale prigioniero della sua stessa acutezza mentale sceglie la fedeltà ad un sistema ideologico che lo imprigiona. Una prigionia che paradossalmente parte dalla conoscenza e lo incatena in un regime. «I due personaggi sono antitetici in un certo senso. Uno fugge materialmente, l'altro prova soltanto una fuga mentale ma rimane... L'altro fa un viaggio fisico verso il confine e la pace».
Un tema caro ad Enard da sempre, quello del sottile confine fra guerra e pace. Anche per questioni biografiche: «Ho scritto molto sulla guerra da diversi punti di vista e mi sono reso conto dopo che in parte dipendeva dall'essere stato io a Beirut sul finire della guerra civile, ma dipendeva anche dal rapporto con mio nonno. Mio nonno ha partecipato alle ultime tre guerre combattute dalla Francia come paracadutista: Seconda guerra mondiale, Indocina e Algeria, tutte queste storie si può dire che le ho ereditate... E forse una generazione dopo tornano nei miei romanzi. Poi bisogna essere onesti, la guerra è dappertutto, c'è più guerra che pace nel mondo e quindi per raccontare l'umanità dalla guerra si passa. Siamo un'umanità triste che ha conosciuto poco la pace e nei miei romanzi c'è l'eco di questo».
Un tema che inevitabilmente tornerà anche dialogando davanti ai lettori di Book Pride che quest'anno ha per tema «Danzare sull'orlo del mondo». Orli frastagliati dai conflitti su cui Enard vuole riflettere, in un'Europa che pensa anche alla necessità di doversi riarmare. «L'intellettuale e lo scrittore in questo senso hanno un compito molto importante. Bisogna riflettere su come reagire davanti alla possibilità di una guerra. I nostri politici hanno fatto una scelta simile a quella che ha preceduto la Prima guerra mondiale. Compreremo le armi per preparare la pace. Costerà moltissimo e non so se sarà una risposta davvero per la pace. Certo bisogna essere in grado di fronteggiare una guerra. Ma io voglio che si lavori per una possibilità per la pace.
E quindi il nostro compito è continuare a riflettere su come poter rendere possibile la pace, più che concentrarci solo sull'eventualità della guerra...».Per usare le parole di Disertare: «Un salto di riga,/ un salto,/ sarà forse l'addio al fucile,/alle cartucce,/ magari anche al coltello...».
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