"Niente crime. Mi metto alla prova con un romanzo di buoni sentimenti"

Dopo i suoi gialli bestseller, lo scrittore svizzero Joël Dicker torna con una storia "per tutti". In cui l'io narrante è una ragazzina e gli adulti fanno una pessima figura...

"Niente crime. Mi metto alla prova con un romanzo di buoni sentimenti"

Dall'alto dei suoi venti milioni di copie vendute, più una miniserie tv con Patrick Dempsey tratta dal suo bestseller La verità sul caso Harry Quebert, Joël Dicker può permettersi perfino di cambiare rotta. E di offrire ai suoi lettori un romanzo assai diverso dai noir precedenti: La catastrofica visita allo zoo (edito come sempre da La nave di Teseo, pagg. 264, euro 20), vicenda di bambini a cui ne capitano di tutti i colori, fino alla incredibile gita allo zoo del titolo, raccontata da una di loro, Joséphine. Un libro in cui la componente «gialla» è una cornice sfumata e si ride molto (oltre a riflettere e commuoversi). Lo scrittore ginevrino risponde da Parigi, dove è in tour, prima di arrivare in Italia. «Sono contento perché molti lettori lo passano ai propri figli, o lo leggono con loro».

Joël Dicker, era un suo obiettivo?

«Era quello che speravo. Passiamo le giornate con il cellulare in mano... Che vita vogliamo? Di solito desideriamo un lavoro, l'amore, del cibo, la sicurezza e essere liberi. Ebbene, noi possiamo arrivare a tutte queste cose solo se leggiamo. Perché leggere apre il cervello e la mente».

Come ha avuto l'idea di un romanzo così diverso dai precedenti?

«Sembra molto diverso, ma in realtà il processo è identico. Le differenze principali sono il fatto che non ci sia un omicidio, che non sia una storia crime, e che il narratore sia una ragazzina. Ma i miei lettori si ritrovano anche in questo libro: c'è un filo chiaro».

Quale?

«Credo che quello che conta sia la sensazione che dai. Volevo proprio dimostrare come a far girare una pagina dopo l'altra non siano la storia, o l'indagine, bensì quello che uno sente. Per esempio, il fatto che alla fine uno si domandi se la storia sia vera, perché l'ha sentita così reale, che è come se fosse vera, come se esistesse davvero... E il fatto è che esiste: esiste nel nostro cervello, perché noi abbiamo la capacità di creare una storia».

Come ha costruito questa?

«Come le precedenti: senza alcuno schema. Ho provato a scrivere e ho visto quello che succedeva. Come sempre, innanzitutto mi sono domandato chi fosse il narratore: se una prima o una terza persona, una donna o un uomo. E questa volta mi sono detto: proviamo una bambina. Come prima storia ho scritto quella del poliziotto che fa la lezione di sicurezza stradale a scuola, e poi sono andato avanti con le altre, e mi sono accorto che questa modalità mi dava la possibilità di affrontare molti argomenti, senza sembrare giudicante: quindi ho potuto parlare del comportamento degli adulti, o della democrazia... E sono andato avanti così, fino a collegare il tutto in una storia unica e a una indagine».

E l'umorismo?

«Adoro ridere quando leggo. Anche se non succede spesso: mi vengono in mente Roald Dahl o David Sedaris... È una sensazione fantastica e crea un legame speciale fra il libro e il lettore, ma per uno scrittore è molto, molto difficile far ridere».

Perché?

«È come con le barzellette: la prima volta che scrivi qualcosa di divertente fa ridere, la seconda non più. Infatti in passato avevo sempre tagliato le parti divertenti, in fase di editing».

Come ha fatto allora?

«Ho seguito il mio primo istinto. D'altra parte questa volta si trattava anche di divertire il lettore, di portarlo lontano dall'ansia del mondo in cui viviamo».

Nella scuola del romanzo, i bambini, i docenti e i genitori sperimentano il politicamente corretto.

«I bambini vogliono dire le cose senza pensare: vogliono dire quello che sentono e basta. Qui i genitori rappresentano gli adulti, nella versione peggiore di noi stessi».

Si insiste molto anche sulla distinzione tra bambini, quelli cosiddetti «normali» e quelli «speciali», che poi sono i veri protagonisti.

«Sono cosiddetti normali e cosiddetti speciali, ma non sappiamo quali siano quali, e perché. Il punto è che all'inizio non c'è nessuna distinzione ma poi, appena il direttore della scuola raggruppa i bambini e dice: Vedete, questi bambini sono diversi, non prendeteli in giro, allora subito diventano diversi e vengono presi in giro...».

È quello che accade?

«È così, gli adulti sono ossessionati dall'essere diversi. Essere diversi è normale, ovviamente: siamo diversi, e dobbiamo farlo funzionare, è la bellezza della democrazia».

Dopo aver venduto milioni di copie si è potuto permettere un romanzo di buoni sentimenti?

«Abbiamo bisogno di ridere, di sentirci bene. Volevo una prova che la letteratura possa fare anche quello. Già dobbiamo ascoltare tante cose orribili».

Che però, dice una vecchia regola, vendono...

«Nei miei libri, anche in quelli più oscuri, c'è sempre una atmosfera piacevole: voglio che i miei lettori si sentano a proprio agio. Un bell'hotel in montagna, una villa al mare...».

Nel libro si parla anche di censura: che cosa ne pensa?

«Credo che oggi sia un concetto che utilizziamo, senza sapere che cosa sia e come funzioni. È come se, siccome alcuni non vogliono che si dica qualcosa, diventassero la maggioranza. Ma in realtà sono una minoranza».

È stato difficile calarsi nel punto di vista di una bambina?

«È stato facile. Non mi sono dovuto calare affatto: ho provato e ho capito che funzionava, che era credibile».

Gli adulti sono così pessimi?

«Nel libro sono codardi, si rassegnano, sono egoisti, non sono capaci di vivere insieme. Credo che i bambini non siano così, ma possano diventarlo e dobbiamo combattere affinché non avvenga. Non dovremmo accettare il mondo come è. E questo è proprio un libro sul mettere in discussione: i bambini mettono in discussione come sono gli adulti, i quali non vogliono essere messi in discussione. Ma il punto è proprio mettere in discussione chi siamo e quello che facciamo».

Come ha fatto a scrivere un libro «per tutti»?

«Non l'ho pensato prima.

Ma è come preparare un discorso per un matrimonio: non puoi indirizzarlo solo agli sposi, devono capirlo tutti, e devi farlo naturalmente. È una abilità che abbiamo in noi, quella di raggiungere la più ampia gamma di persone possibile».

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