
In una delle poesie più vertiginose, di sigillata bellezza, Orfeo. Euridice. Hermes, Rilke si ritrae nella driade. È lui, il poeta, «la Tanto-amata», «incerta, mite e senza impazienza/ chiusa in sé come grembo che prepari una nascita». La poesia occidentale nasce dal pietoso gesto con cui Orfeo si volge a Euridice, spezzando l'incanto; Rilke resta agli inferi, radicato in una oscura sapienza. Il poeta-poeta allieta i principi e alletta i re: non sa più far risorgere i morti, ha perduto i nomi che fanno camminare i monti e gli alberi. Rilke sulla via aperta da Friedrich Hölderlin è invece un poeta-sciamano, ricuce i legami tra i vivi e gli andati: la sua poesia fatene esperimento agisce, lenisce, opera.
Ma siamo ancora nel 1907, ai Neue Gedichte. La poesia che Rilke dedica al mito orfico ribaltandolo è incastonata tra liriche destinate a temi biblici Davide canta davanti a Saul, ad esempio ed esotici. Una poesia s'intitola Buddha: «Oh, egli è Tutto. Ci aspettiamo forse/ ch'egli ci veda?». Nel bestiario rilkiano furoreggiano La pantera, La gazzella, L'unicorno. In quegli anni, Rilke viaggia molto: è a Parigi, a Capri, a Vienna. È folgorato dall'opera di Cézanne; entra in fraterna amicizia con Rudolf Kassner, pensatore anticonformista che aveva da poco attraversato il Sahara in auto (l'amicizia tra il poeta e il filosofo è ricostruita in: R. Kassner, La libertà e l'abisso, Magog, 2023). Pur acclamato tra i grandi poeti dell'epoca, rifugge gli onori. Capisce che tutto ciò che ha scritto è una preparazione verso qualcosa di ancora incomprensibile. Seguiranno anni inquieti, di viaggi selvaggi in Egitto, in Spagna, a Duino , di ripensamenti, di crisi. Il poeta traduce le poesie di Michelangelo. «Chi sa chi sono? Io cammino e muto», scriverà, anni dopo, a Ilse Jahr.
Come nel mito di Orfeo, tuttavia, il bello accade in virtù di un sacrificio; al bene si accede tramite il sangue. La via ascetica percorsa da Rilke ha le fratture della ferocia. Nel 1911 il poeta si separa dalla moglie, Clara; nel 1919, dopo la Grande guerra, incontra la figlia Ruth: la ragazza va per i diciotto anni; li compie in dicembre, come il padre, che non vedrà mai più. Rilke non partecipa al matrimonio della figlia; non assiste alla nascita dei nipoti, Christine e Josepha, per sempre sconosciuti ai suoi occhi. Grazie alle premure di Werner Reinhart, filantropo, amico di Igor Stravinskij, ottiene il maniero di Muzot, sopra Sierre, nel Vallese, in Svizzera. Lì l'inverno è rigido e rude fino all'allucinazione la solitudine, allentata dalle visite di Baladine, la più tenace delle amanti, la madre di Pierre Klossowski e di Balthus, ribattezzata «Merline» dal poeta. Fuori dal mondo e dal tempo, recluso nel «piccolo Muzot... grande vecchio fido animale», nel febbraio del 1922, in stato d'estasi, una ventina di giorni che ha cambiato la storia della poesia occidentale, Rilke compie le Elegie duinesi e scrive I sonetti a Orfeo. Più che le Elegie poema filosofico supremo, che indaga gli indicibili sono i Sonetti a testimoniare il potere medianico del poeta: escono sorgivi, immeditati, medicamentosi, immedicabili. Ha ragione Riccardo Held: I sonetti a Orfeo (di cui ha curato per Mondadori una nuova traduzione, pagg. 152, euro 18) sono «un ultimo affresco di tonalità, musicalmente trionfante, perfetta», prima di scoscendere nelle Elegie, la «grande avventura atonale» di Rilke. Le Elegie mutano il nostro sguardo sul mondo (per questo, vanno lette accanto al Tractatus di Wittgenstein, a Essere e tempo di Heidegger, agli studi di Heisenberg), I sonetti proprio come gli antichi Inni orfici fendono il mondo, lo flettono; entrano nelle segrete di ogni creatura e di ogni cosa. Nei Sonetti c'è la gioia della vita matura, che muta per un ultimo istante, i nomi e i codici del creato sono ancora a disposizione del poeta. Capitati come un miracolo, riportano la poesia al proprio principio «pasquale», parola che comporta il risorgere. Di lì a poco, sarà il crollo nella modernità: il poeta, nel motto di Montale Ossi di seppia esce nel 1925 , può soltanto «scoprire uno sbaglio di Natura,/ il punto morto del mondo, l'anello che non tiene»: non possiede più «la formula che mondi possa aprirti».
Dedicati a Wera Ouckama Knoop, giovane ballerina morta a diciannove anni di leucemia, I sonetti sono anche un ferale esorcismo. Alla madre di Wera, Rilke scrisse della «bruna grazia... indimenticabile» della ragazza, di «come giungeva con le antenne del cuore oltre tutto ciò che si può afferrare e abbracciare quaggiù» (la lettera è raccolta in: Rainer Maria Rilke, Noi siamo le api dell'invisibile, De Piante, 2022, a cura di Franco Rella). Wera è figura orfica, in cui si rispecchia la figlia di Rilke, la sacrificata, la mai più vista. I sonetti recano le stimmate di Euridice: il canto vertiginoso della donna che si è liberata delle libagioni d'incanti di Orfeo.
I sonetti piacquero a Hugo von Hofmannsthal. La schmale Leier del terzo sonetto («Un Dio può farlo ma, dimmi, come mai potrebbe/ fargli seguito un uomo per la stretta lira?») è un diretto riferimento a una delle poesie misteriche di Hofmannsthal, Manche freilich..., che chiude così: «Molti destini s'intessono accanto al mio,/ Tutti li rimescola nel suo gioco l'Essere,/ E la mia parte è più che la sottile fiamma/ o la stretta lira di questa vita». Il resto è la verifica delle versioni. Questo è Held: «Precedi ogni congedo quasi lo avessi alle spalle,/ come l'inverno che sta appena passando». Questo è Rella: «Sii prima d'ogni addio, come fosse già dietro/ di te, come l'inverno, che già ora finisce» (Feltrinelli, 1991). Questo è Giacomo Cacciapaglia: «Anticipa ogni addio, quasi fosse già alle tue spalle,/ come l'inverno che ora se ne va» (Einaudi, 1994; 2000). Nei travasi della traduzione, qualcosa va vanificato: si dice «Sii sempre morto in Euridice» (così Rella e Cacciapaglia) o «Con Euridice sii sempre coi morti» (Held)? Il significato è affatto diverso.
I sonetti a Orfeo sono l'estremo libro di Rilke, il libro della gioia. Dopo, saranno gli anni del dolore e di una più regale latitanza; le lettere di Marina Cvetaeva; l'amicizia di Paul Valéry. L'ultima poesia appuntata su un taccuino, a metà dicembre del 1926 è un falò: «Sono ancora io, io che brucio/ ormai qui inconoscibile?». Il poeta, roso dalla leucemia, sta morendo.
Al suo fianco, un'ignota infermiera. Si chiama Evgenjia, è russa, lo accompagnerà fino all'ultimo. L'ha assunta qualche settimana prima. Di questa sua devota Euridice non sappiamo nient'altro svanirà, negli anni che chiamiamo Ade.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.