La rivincita, a pugno alzato, di Trump

Il saggio di Gennaro Sangiuliano porta il lettore al cuore della politica Usa

La rivincita, a pugno alzato, di Trump

A volte un'intuizione, uno scatto d'orgoglio possono cambiare la storia. C'è un balzo con cui Donald J. Trump, ferito all'orecchio e salvo per miracolo, è spuntato dal muro di protezione che avevano creato attorno a lui gli agenti del Secret Service. Un balzo che gli è servito per urlare alla folla con il pugno alzato «Fight!», «forza, combattiamo!», un balzo che la storia leggerà come il vero sussulto della sua campagna elettorale, la svolta verso la vittoria. «The Donald», ferito a un orecchio, caduto a terra, non ha strisciato verso un punto sicuro, ma si è subito rialzato per rassicurare il suo popolo che lui era lì, pronto a continuare. La foto che lo ritrae con il pugno alzato entrerà di diritto nella lunga storia dell'epica americana. Gli storici hanno già richiamato Theodore Roosevelt, che continuò il suo comizio dopo che gli spararono nella pancia, o anche George W. Bush che, sulle macerie delle Torri Gemelle, regge un megafono e urla: «Tra poco ci sentiranno». Il 13 luglio un giovane, Thomas Matthew Crooks, imbraccia un fucile semiautomatico sul tetto di un edificio non distante dal palco con l'intenzione di uccidere l'ex presidente, verso il quale dirige otto proiettili della sua arma. Trump sta tenendo un comizio a Butler, in Pennsylvania, uno degli Stati chiave della competizione elettorale, dove poi vincerà. Sulla direzione di tiro c'è Corey Comperatore, un ex vigile del fuoco, di origini calabresi, che resta ucciso.

Il fallito assassinio di Trump è il punto di svolta che dà nuova linfa alla campagna elettorale di «The Donald», il momento che produce la scossa sui suoi sostenitori, chiamati a raccolta dall'orgoglio del proprio leader. Quell'immagine sembra dire: da una parte c'è una leadership che sopravvive alle pallottole e si rialza, dall'altra un anziano che non si rassegna alle sue condizioni senili. In precedenza, il dibattito televisivo del 27 giugno, il primo e l'ultimo con Joe Biden, aveva innescato un effetto domino, mettendo brutalmente in evidenza le condizioni del presidente uscente e costringendolo a un tormentato e discusso ritiro.

L'attore e regista George Clooney scrive un intervento sul New York Times in cui chiede a Joe Biden di farsi da parte, che è inutile ostinarsi e insistere. È una mossa probabilmente concertata con i vertici del partito. Clooney non è solo una star del cinema, è un influente sostenitore del Partito democratico, è stato finanziatore e organizzatore di raccolte fondi delle ultime campagne presidenziali, quelle di Barack Obama, di Hillary Clinton e di Joe Biden. Solo il 21 luglio Biden accetta di gettare la spugna, si arrende all'evidenza e alle pressioni dei maggiorenti del partito, e il suo è un abbandono inusuale nella storia recente americana, che ha un precedente simile solo quando, nel 1968, il presidente Lyndon B. Johnson si ritira nel mese di marzo. La designazione di Kamala Harris è tardiva. Federico Rampini scrive di «nomination omertosa», che «non è passata attraverso un procedimento di selezione democratica», e con un'espressione davvero forte aggiunge: «È stata premiata, in una logica mafiosa, per aver partecipato alla congiura omertosa del silenzio sulla salute di Biden». Ma torniamo all'attentato a Trump, che richiama immediatamente altri gravi episodi. Il 30 marzo 1981 il conservatore Ronald Reagan, da qualche mese insediatosi alla Casa Bianca, sfugge per poco alla morte, ferito da sette colpi di arma da fuoco sparati da un certo John Hinckley. Nel maggio del 2002, il leader liberal-conservatore olandese Pim Fortuyn, fiero oppositore dell'oscurantismo islamista, a nove giorni dal voto viene assassinato con cinque colpi di pistola mentre lascia una stazione radiofonica alla quale aveva concesso un'intervista. Nel 2018, in Brasile, Jair Bolsonaro viene accoltellato durante la campagna elettorale che lo vedrà poi trionfante.

Dal 15 al 18 luglio si celebra al Fiserv Forum di Milwaukee la convention nazionale repubblicana che ha preceduto di circa un mese (19-22 agosto) quella democratica di Chicago. Milwaukee è la città più popolosa del Wisconsin, uno degli Stati ritenuti chiave nella competizione elettorale, che esprime dieci grandi elettori e che Trump si aggiudicherà. Il Fiserv Forum è un'arena polivalente, nel centro della città, sede dei Milwaukee Bucks della NBA (National Basketball Association). Con questa nomination, Trump è diventato il secondo repubblicano a essere nominato tre volte l'altro fu Richard Nixon, candidato nel 1960, 1968 e 1972 , ma è l'unico a esserci riuscito per tre volte consecutive. La convention consacra la designazione del quarantenne senatore dell'Ohio James David Vance come candidato vicepresidente. È stato scelto personalmente da Trump, che ha rimandato al mittente ogni pressione che gli veniva dal partito per altri esponenti della nomenklatura interna. L'intuizione si rivelerà fortunata e vincente. Un'infanzia molto difficile, segnata da povertà e abusi, con una madre tossicodipendente sempre in fuga, quella di Vance, definito dal giornalista Gianni Riotta un «cafone colto» che ha studiato nella prestigiosa Yale Law School (la stessa università di Bill e Hillary Clinton), è una storia di riscatto. L'ex marine Vance, in anni passati ostile a Donald Trump, è l'autore di un fortunato libro Elegia americana (Hillbilly Elegy), che raccoglie dolorose memorie personali, il racconto di una famiglia nella crisi americana e nella perdita di certezze e valori. Il libro, diventato simbolo di una lotta e definito dal «Washington Post» la «voce della Rust Belt», rimane nella classifica dei best seller del «New York Times» nel 2016 e nel 2017 e vanta anche una trasposizione cinematografica.

È un doloroso ritorno alle proprie origini: Vance, che ha cercato il riscatto arruolandosi e studiando, racconta l'alcolismo dei nonni e la tossicodipendenza della madre sullo sfondo della profonda crisi economica e sociale della Rust Belt (la regione tra i monti Appalachi settentrionali e i Grandi Laghi) che ha tolto l'identità operaia alle comunità locali. Vance si autodefinisce un conservatore nazionale con un forte patriottismo, ma si distingue dai repubblicani classici per una decisa venatura sociale che lo ha portato a sostenere l'incremento del salario minimo, l'intervento pubblico a sostegno dell'industria, il riconoscimento del valore del sindacato. Si è assunto l'onere di dare un retroterra culturale e ideologico a Trump. Alla convention repubblicana prende la parola la modella di origini capoverdiane Amber Rose, le sue parole rompono lo schema accreditato dal mainstream: «Sono qui stasera per dirvi che, indipendentemente dal vostro background politico, la migliore possibilità che abbiamo per dare ai nostri figli una vita migliore è eleggere Donald Trump a presidente degli Stati Uniti». E aggiunge: «Credevo alla propaganda di sinistra secondo cui Donald Trump era un razzista. Ho capito che a Donald Trump e ai suoi sostenitori non importa se sei nero, bianco, gay o etero ... È stato allora che mi sono resa conto: questa è la mia gente». Il sostegno a Trump delle cosiddette minoranze (afroamericani, latinoamericani, gay, musulmani) si è visto in maniera ancora più evidente nel raduno di New York, al Madison Square Garden, cosa che ha smentito clamorosamente le accuse di razzismo che gli vengono rivolte. Ulteriore conferma, l'accoglienza calorosa ricevuta nel Bronx, in alcune contee della Georgia e in altre località a maggioranza afroamericana o latina. Nella super democratica New York, metropoli multietnica per eccellenza, Trump ha ricevuto centomila voti in più della precedente consultazione, un clima che si era già percepito con lo straordinario successo del comizio al Madison Square Garden, gremito all'inverosimile, con oltre ventimila persone stipate e migliaia rimaste fuori per il tutto esaurito.

Daniel HoSang, politologo dell'Università di Yale che ha analizzato la penetrazione della destra fra le minoranze etniche, ha dichiarato al New York Times: «La forza dell'operazione di rosicchiamento di Trump nella tradizionale coalizione democratica composta dagli elettori non bianchi è stata stupefacente». L'elezione di Trump mette a nudo ancora una volta la distanza che separa certe élite dal mondo reale, è la sconfessione di certi guru che pretendono di giudicare il mondo e distinguerlo in bene e male, il superamento di una narrazione che divide e decide buoni e cattivi. All'indomani dell'elezione di Trump, i mercati hanno reagito positivamente: Dow Jones in su e dollaro in rialzo, smentendo nefaste previsioni.

Siamo di fronte a un nuovo paradigma che consiste nell'aver abbandonato lo schema del vecchio dualismo democratici-repubblicani per approdare, pur restando nel Partito repubblicano, a un proprio movimento Make America Great Again (MAGA), che riprende lo slogan che fu di Ronald Reagan, «Let's Make America Great Again». Un movimento fondato su un patto sociale interclassista, che pone al vertice la nazione e che, in nome di questa, scardina le vecchie competizioni fra ceti, una novità che non è sfuggita ai più accorti studiosi.

Non ha alcun fondamento giuridico la tesi che Trump possa essere un dittatore: gli Stati Uniti non solo sono una delle democrazie più antiche e solide del pianeta, ma il suo sistema costituzionale è fondato sul «checks and balance», un rigoroso bilanciamento dei poteri, che non mancherà di farsi sentire.

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