Vollmann si traveste per raccontare meglio

Intorno ai cinquant'anni, per avvicinarsi il più possibile all'immaginario femminile, ha cominciato a vestirsi e a truccarsi da donna

Vollmann si traveste per raccontare meglio
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Che l'americano William T. Vollmann sia uno scrittore ai limiti della grafomania ormai è evidente, visto che in sessantacinque anni di vita ha prodotto decine di migliaia di pagine. Opere sia di narrativa sia di saggistica, più e meno autobiografiche, talvolta incentrate su esperienze personali che ci appaiono inquietanti. Una volta è finito quasi assiderato nel tentativo di raggiungere il Polo Nord. Intorno ai cinquant'anni, per avvicinarsi il più possibile all'immaginario femminile, ha cominciato a vestirsi e a truccarsi da donna, assegnandosi l'alter ego di Dolores e ritraendosi in una serie di fotografie che, nel corso del tempo, lo facevano assomigliare sempre più a una vecchia baldracca. L'ha dichiarato lui stesso: vedendosi di sfuggita nello specchio, si spaventava.

Ora, questa premessa ci può aiutare ad addentrarci in un suo testo del 1991, già apparso in Italia ma ora riproposto in una nuova, croccante traduzione. Tredici storie e tredici epitaffi (minimum fax, traduzione di Chiara Belliti e Simona Vinci) si compone di una serie di racconti che alcuni critici americani hanno definito «brevi», relativamente alla mole di lavoro del Nostro, considerato che solo il primo dura 84 pagine. Gli «epitaffi» che li intercalano sono piccoli testi (anch'essi brevi racconti) rivolti a persone, animali e oggetti, svolti intorno al tema dell'amore e della morte. I personaggi sono quelli che più popolano l'immaginario di Vollmann: ladri, balordi, vagabondi, spacciatori, aspiranti suicidi, tantissime puttane. Su queste ultime il tracimante scrittore californiano sviluppò una trilogia poi pubblicata con l'opportuna denominazione di Prostitution. Alcuni di questi personaggi riaffiorano in più occasioni, in particolare una certa Elaine Suicide, una ragazza dalla personalità disturbata, gotica e decadente, ma forse è tutta la scrittura di Vollmann a configurarsi come disturbata, gotica e decadente, dato che vortica intorno a un senso di tristezza e di sconfitta perenni. Non manca per fortuna di una certa dose di ironia, e anche nella descrizione di situazioni-limite sa muoversi con delicatezza: «la mia amica Melissa, che mostrava alle auto le sue tette dolci come la cioccolata, senza mai sprecarsi in sorrisi di finto amore». Peccato che Melissa, poche righe più avanti, la troviamo già morta per overdose. E che dire di quel pover'uomo di Ken il quale, innamorato perso di una ragazza thailandese, non soltanto la sposa, ma continua a riscattarla ogni giorno nonostante lei si ostini a proseguire nel meretricio.

Se non sapessimo che Vollmann è sposato con un'oncologa dalla quale ha anche avuto una figlia, penseremmo che sia una specie di squilibrato. Oltretutto, avendolo incontrato qualche anno fa a Torino, ci eravamo trovati di fronte a un ragazzone corpulento e paffuto, benevolo, un simpatico nerd.

Chi penserebbe che lo stesso uomo da anni si rinchiude ogni giorno a scrivere, sempre solo (la moglie giustamente sta alla larga), per ore e ore dentro un ex ristorante messicano, riadattato a sua misura, protetto da filo spinato, con tutto il guardaroba da donna appeso nella vecchia cella frigorifera? Un eccentrico, senza dubbio. Come la sua scrittura, dallo stile ramificato, sperimentale, talvolta oscuro, una sfida e una provocazione al lettore, quasi a volerlo stancare per bene prima di offrirgli la meritata ricompensa.

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