Zanelli scultore idealista. Tra Fidia e Michelangelo

Il sottobasamento della statua equestre di Vittorio Emanuele II segnò un rinnovato sentimento eroico

Zanelli scultore idealista. Tra Fidia e Michelangelo
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Chissà quanti parlamentari, accomodati sui loro scranni, alzano gli occhi per ammirare la grandiosa visione di Aristide Sartorio, accampata su un fondale neutro, non levigato. Pochi, immagino. A me, entrato in Parlamento molto giovane nelle file del Partito Liberale, nel 1992, capitò di spiegarne l'importanza al neosenatore a vita Gianni Agnelli, certamente più interessato a quei fregi che al dibattito in corso nell'aula.

Il fregio di Sartorio, di cui più volte ho parlato e scritto per sottrarlo al velo di oblio che su di esso si era posato, ha il suo corrispondente ideale soltanto in un altro fregio, eseguito negli stessi anni: quello per l'altare della Patria, negletto anch'esso dalla miriade di sguardi ciechi che vi si posano appena, scivolandone via, in occasione delle commemorazioni.

Proprio tra il 1909 e il 1913 lo scultore bresciano Angelo Zanelli venne predisponendo il modello per il sottobasamento della statua equestre di Vittorio Emanuele. Mentre Sartorio, col suo furore indomabile, nel 1911 aveva già pienamente impostato la sua impresa, Angelo Zanelli presentava e applicava sul monumento il suo bozzetto di insieme, in gesso, dove, in non casuale sintonia con Sartorio, si veniva riproducendo un incessante ritmo neofidiaco, congiunto con un lessico plastico di ispirazione michelangiolesca. Non lontano dai modi di Sartorio, appunto.

Zanelli è espressione tipica della cultura idealista, opposta al naturalismo descrittivo della tradizione ottocentesca. Non più soggetti di genere, espressione di quotidianità borghese, non più una connotazione geografica, locale, dunque, ma un rinnovato atteggiamento eroico nel quale convivono Fidia, Michelangelo e il Liberty. Era, questo, anche il risultato dell'esperienza dei preraffaelliti, di cui si potevano ammirare le decorazioni a mosaico, opera di Edward Burne-Jones, nella chiesa di San Paolo entro le Mura, a Roma, non distante dai cantieri di Zanelli e Sartorio.

Ma l'esperienza degli artisti inglesi viene riletta alla luce della pittura scultorea di Michelangelo, dei suoi volumi e della potenza delle sue figure e forme. Attraverso l'Inghilterra, Zanelli recupera la tradizione classica italiana - in contrapposizione ai «tentativi decadenti da cui era afflitta la Francia artistica» attraverso una deprecabile «vacuità della forma e indefinizione dell'immagine» (sono parole di Aristide Sartorio). Di questo particolare tramando, dall'Inghilterra all'Italia, ha dato una lucida interpretazione Rossana Bossaglia, bravissima studiosa del Novecento italiano, scomparsa nel 2013: «In questa direzione operavano pittori come De Carolis e Sartorio proprio nei medesimi anni in cui si compie il fregio per il Vittoriano di Zanelli . L'arte di Sartorio era in realtà di fronte all'impasse del tramonto del Simbolismo di matrice spiritualistica e si indirizzava, per strade diverse, al recupero di forme plastiche e compatte, spesso mettendo insieme le ragioni della retorica monumentale con quelle del primitivismo barbarico, in un incontro equivoco ma conturbante fra decadentismo e avanguardia . Come Sartorio anche Zanelli, nel secondo lustro del secolo, parla di cultura mediterranea; le sue dichiarazioni corrispondono assai bene a quelle formulate dal pittore a commento del ciclo presentato alla Esposizione di Venezia nel 1907; e non si può negare una palese relazione fra di esso e il fregio funerario di Zanelli l'anno dopo».

Inevitabile quindi che, al traguardo delle loro opere maggiori, i due artisti arrivino in sintonia di intenti e di forme. Non solo loro, in verità: il viaggio potrebbe continuare con Giovanni Prini, genovese, scultore di minore autonomia, che si è espresso nel notevole fregio per il Palazzo delle Belle Arti sul tema Peana dell'arte. E con Davide Calandra, torinese, nel suo più statico (rispetto al moto ondoso di Sartorio) fregio per Montecitorio.

Le forme fluttuano - con maggiore e minore intensità, con maggiore o minore dinamismo - in uno spazio indistinto entro una materia grumosa, non levigata, con il sapore dell'abbozzo.

Sono queste immagini che consuonano con i versi di Gabriele d'Annunzio, dalle Laudi, IV, Merope, versi che paiono risplendere a ogni pennellata o colpo di scalpello di questi artisti: «Con me, con me verso il Deserto ardente,/ con me verso il Deserto senza sfingi,/ che aspetta l'orma il solco e la semente;/ con me, stirpe ferace che t'accingi,/ nova a riprofondar la traccia antica/ in cui te stessa ed il tuo fato attingi,/ con me là dove chi combatte abbica,/ perché nella corona io ti connetta/ la foglia della quercia con la spica!/ Se tu mi veda oggi nell'armi eretta/ sopra la prua, tu mi vedrai domani/ da presso curva al suolo che t'aspetta,/ quando pacata come i Decumani/ acerrimi, con nude ambe le braccia,/ tu riempirai di semi le tue mani».

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