La terza pagina, scuola di critica che ci ha insegnato il libero pensiero

I tre pilastri: qualità, autorevolezza e il gusto di sbugiardare il salottino chic

La terza pagina, scuola di critica che ci ha insegnato il libero pensiero

La terza pagina del Giornale nasce per un atto di coraggio di Guido Piovene, uno dei più grandi scrittori italiani del XX secolo. Malato e forse amareggiato dal panorama culturale, accoglie l’invito di Indro Montanelli. Piovene non era certo un «animale da redazione» eppure, con sorpresa del direttore, nei pochi mesi della sua avventura al Giornale, oltre a essere una presenza costante in sede, lascia un’impronta fortissima sulla sezione culturale. Così forte da non necessitare di cambiamenti fondamentali nel corso dei decenni: ancora oggi, nell’incertezza, basta consultare gli articoli del Maestro per orientarsi.

La terza pagina di Piovene è fondata su tre pilastri: premiare sempre la qualità a prescindere da quello che viene proposto dal mercato come «bello» o «vincente»; svelare e sbugiardare il salottino (sempre più -ino col passare degli anni) di chi crede di rappresentare l’intera cultura italiana, e non solo una parte di essa, non la migliore ma quella pronta a tutto per una briciola di potere («sono a disposizione», grida il mediocre intellettuale al politico di passaggio); andare controcorrente con autorevolezza, il che significa anche tirare fuori la gioielleria della cultura di destra: e ove non ci fosse, inventarsela.

Questo comportò una «campagna acquisti» che subito valicò i confini dell’Italia, senza troppo badare alle spese. Un ruolo cruciale, nel reclutare teste pensanti, fu ricoperto da Enzo Bettiza. Scorrere l’elenco (incompletissimo) delle firme lascia basiti. Ricordiamo, tra i mille, Jorge Luis Borges, François Fejtö, Anthony Burgess, Eugene Ionesco, Raymond Aron,Jean-François Revel... Tutti collaborarono con la terza pagina, ciascuno a modo suo. All’inizio, la cultura aveva sempre un fogliettone, ovvero un estratto a puntate di un libro. A inaugurare la serie fu La leggenda del santo bevitore di Jospeh Roth, scelta snob e mitteleuropea, certamente firmata Bettiza. Diventerà un caso letterario e un long seller presso l’editore Adelphi.

Il settore storico è sempre stato il fiore all’occhiello. La terza pagina, internamente, poteva contare sul contributo di Montanelli e di Mario Cervi. Se poi serviva qualcosa, beh, c’erano Rosario Romeo e Renzo De Felice, per gradire: il meglio del meglio. Romeo rintuzzava (stavo per scrivere: asfaltava, ma sarebbe volgare) Gramsci e soprattutto il gramscismo. Pensare che oggi una parte della destra vorrebbe adottare i metodi del gramscismo... De Felice invece riscriveva la storia del Fascismo affermando alcune verità scomode: Mussolini veniva da sinistra; il Regime, fino alla guerra, aveva un largo consenso; la Resistenza, senza nulla togliere al valore morale e militare della testimonianza, fu un fatto numericamente marginale; il grosso degli italiani si collocava nella cosiddetta zona grigia di chi non si sbilanciava in attesa spasmodica della fine del conflitto; l’Italia fu liberata dagli Alleati. Apriti cielo. In campo economico, è il caso di ricordare Sergio Ricossa, rarissimo esempio di liberale, libertario e liberista in un colpo solo, capace di affondi esilaranti contro quelli che oggi chiamiamo, con espressione un po’ frusta, radical chic. A Ricossa piaceva la borghesia intraprendente, a volte un po’ conservatrice, ma libera. Che storia incredibile. Ricordare tutti è impossibile, oltre che inutile. Ecco una rapidissima rassegna dei primi anni. La filosofia: Nicola Abbagnano, Vittorio Mathieu. Le scienze politiche: Nicola Matteucci e Domenico Settembrini. La musica: Piero Buscaroli, Paolo Isotta e Cesare Romana. La teologia: Sergio Quinzio. La critica culturale, oltre alla letteratura anglosassone: Mario Praz. Cinema: Carlo Laurenzi e poi Massimo Bertarelli. Ne mancano tanti, e chiediamo scusa: ma la terza pagina di questo giornale è stata la «Nazionale» della cultura di destra. Peccato che talvolta la destra, intesa in senso politico, non se ne sia accorta.

Chiudiamo come abbiamo aperto. Guido Piovene, nel secondo dei suoi articoli programmatici coglieva il limite del dibattito culturale e dettava, per contrasto, la linea. Il vizio della cultura vincente, scrive Piovene, «consiste nel pensare che esistano non soltanto idee inopportune, sbagliate e magari cattive, ma anche idee scandalose, che offendono con il loro esistere. Alle idee “scandalose” non si riserva solo la violenza polemica, ma una specie d’intimidazione pratica, la minaccia ricattatoria. Così, la maggior parte dei nostri giornali obbedisce ancora alla legge del “si può dire” e “non si può dire”. Il repertorio delle idee è monotono e monco, perché vi sono idee tabù. Troppe cose che non si dicono, o che si dicono per forza, non soltanto per colpa della concentrazione delle testate... Un formulario catechistico insulso, che ha per di più la faccia tosta di gabellarsi come audace, ha irretito i giornali e contiene una risposta a tutto: sui partiti, sui sindacati, sui Paesi stranieri, criminali, polizia, giudici, palestinesi, sesso, modo di condurre le mostre, fino a che punto sia pericoloso il fascismo. Ogni risposta differente da quella catechistica, essendo “scandalosa”, produce indignazione, un’arma usata di rado dagli intelligenti ma abitualmente dagli sciocchi».

Questo articolo è stato pubblicato sul Giornale nell’agosto del 1974. Ma va ancora benissimo cinquant’anni dopo.

Purtroppo c’è ancora da combattere, con i nemici, ma spesso anche con gli amici. Certamente la cultura non può prescindere dal dibattito. In Italia non ce n’è stato abbastanza, e infatti la nostra cultura è scivolata lentamente nell’irrilevanza.

Non per colpa di questo giornale.

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