Diciamolo subito. Attualmente quella coreana è una delle migliori cinematografie al mondo. E quando si accompagna a un partner francese - altro fuoriclasse, ma questo è risaputo - la miscela dell'eccellenza è garantita. L'ennesima conferma viene da questo Ritorno a Seoul, presentato un anno fa a Cannes nella sezione «Un certain regard», fucina di tesori e talenti. Non fa eccezione il regista franco cambogiano, che confeziona un'opera di grande spessore sia per la regia, sia per il montaggio, sia infine per un'impeccabile recitazione da parte dei soliti ignoti. Il cast, alle nostre latitudini, è composto da sconosciuti.
La trama è semplice quanto intensa. Una ragazza di origini coreane ma cresciuta a Parigi torna a Seoul e decide di scoprirne di più sul suo passato. Apprende di essere stata abbandonata dai genitori biologici, dopo la guerra che insanguinò il Paese dal 1950 al 1953 lasciando ampie sacche di povertà. Fu l'indigenza a spingere il padre e la madre a disfarsi della bambina che cerca e ottiene di conoscere l'uno e l'altra, il primo facilmente e la seconda con difficoltà. Ma proprio da quest'ultima riceverà il dolore più intenso.
Ritorno a Seoul è opera attualissima che tocca il tasto dell'abbandono e della rinuncia alla genitorialità parallelamente all'adozione. Guarda in faccia la legittima sete di conoscere le proprie origini, indaga sul mistero delle relazioni tra una ragazza adottata e la sua famiglia non biologica. Con tutti la giovane ha un comportamento difficile e negativo, eccezion fatta per la mamma. Una storia drammatica raccontata con il tono della poesia in tante scene e della suggestione psicologica che travolge la protagonista, talvolta destinata perfino all'autolesionismo.
Nessun dettaglio è lasciato al caso, nemmeno la professione della fanciulla ormai cresciuta, che dice di lavorare nel settore missilistico in nome della pace. Invero ben lontana dalla quiescenza della sua missione. L'invito è a non perdere questa perla, rinunciando invece a opere mediocri anche se più familiari.
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