Accuse e dolore a sei anni dalla tragedia ferroviaria di Crevalcore

Tra i familiari delle 17 vittime del più grave disastro italiano c'è chi non accetta la sentenza di assoluzione dei vertici delle Fs. «E' una vergogna», accusa Alessandra Burali, madre della più giovane delle vittime, Daniel. Aveva 20 anni quel 7 gennaio 2005.

Sono sei anni da quella mattina piena di nebbia del 7 gennaio 2005, quando nelle campagne di Crevalcore il treno interregionale 2255 Verona-Bologna si scontrò con il merci 59308 che avanzava sul suo stesso binario.
É stato il più grave disastro ferroviario della storia italiana, con 17 morti e decine di feriti, ma la giustizia non ha dato ai parenti delle vittime una risposta che possa attenuare il loro dolore, la rabbia, l'amarezza.
Mentre con la sesta cerimonia ufficiale si ricordano coloro che da quel treno maledetto sono usciti sotto un lenzuolo bianco, c'è chi non accetta la sentenza, ormai definitiva, che ha assolto i vertici delle Ferrovie dello Stato, a cominciare da Mauro Moretti.
Gli unici responsabili , per i magistrati, furono il macchinista Vincenzo Debiase e il capotreno Paolo Cinti. La nebbia impedì che vedessero due semafori rossi, nessun sistema di allarme li avvisò ( come succede nei Paesi davvero civili) ed entrambi sono morti nello schianto.
«Quel verdetto è vergognoso - accusa la mamma di Daniel, la più giovane delle vittime, Alessandra Burali -, una presa in giro. Sulla tratta Verona-Bologna non c'era il dispositivo di sicurezza che blocca automaticamente il treno se passa con il rosso e mi si vuol far credere che la colpa era dei macchinisti?».
Le Ferrovie sono state assolte perché il piano di installazione del sistema di sicurezza Scmt, che prevedeva interventi più urgenti su altre tratte più trafficate, secondo pm e giudice era corretto.
Ma Alessandra, che ha perso un figlio di 20 anni, non si arrende, anche ora che la Procura generale non ha proposto appello contro la sentenza e che il sindacato dei macchinisti Orsa, l'unico a opporsi in primo grado, non se l'è sentita di continuare da solo la battaglia.
Le famiglie delle vittime non hanno mai formato un'associazione, per avere più voce. Ognuna è andata per conto suo.
I Burali hanno fatto causa alle Ferrovie. «Allo Stato italiano chiedo giustizia -dice Alessandra -, quella vera. Non mi basta quella sentenza. Vorrei vedere in faccia i capi delle Ferrovie e vorrei che loro vedessero me. Vorrei fissare i loro occhi, senza tante parole».
La mattina del 7 gennaio di 6 anni dopo si tiene una messa nella chiesa di San Silvestro, a Crevalcore. Alessandra Burali non c'è, va al cippo in solitudine, senza riflettori.
Ma tra le autorità schierate, di Regione, Provincia, Comuni di Bologna e Crevalcor e i rappresentanti delle Fs che depongono una corona di fiori sul cippo dedicato alle vittime, per la prima volta c'è una parente delle vittime che legge un messaggio.
E' la vedova di Mauro Bussolari, di San Giovanni in Persiceto.
Commossa, interrompendosi ogni tanto, ricorda quella sentenza con dolore e amarezza.
Anche se non fa aperta polemica, la sua frase è significativa quando dice che, fino a quel momento, per tutti il treno era il mezzo più sicuro per muoversi in quelle campagne affogate nella nebbia. E invece... Ora la linea Bologna-Verona è stata finalmente raddoppiata, solo ora.
La sicurezza, dice la signora Nadia, è «un dovere morale», qualcosa che «per nessun motivo può essere ignorato».
Chi non garantì allora, per i viaggiatori di quei treni, la sicurezza? É una domanda che ancora rimane sospesa e punta il dito contro il nostro sistema ferroviario.
«Il mio Daniel - ricorda Alessandra- oggi avrebbe quasi 27 anni. Per me il tempo si è fermato quel giorno. Era partito da Mirandola e stava tornando a casa, a Roma. Una settimana dopo sarebbe stato il suo compleanno e gli amici avevano già cominciato a organizzare una grande festa. In questi 6 anni ho sperato in una risposta diversa da parte dello Stato. Invece, hanno scaricato tutta la colpa sul povero macchinista. Troppo facile, tanto lui non c'è più. Questa è la giustizia italiana».
Gli anniversari sono passati uno dopo l'altro, ma è stata un'amarezza in più vedere che l'inchiesta del pm Enrico Cieri è finita praticamente in nulla.
La famiglia Burali, in causa con le Ferrovie per il risarcimento, vuole soprattutto un riconoscimento di colpa da parte di chi consentì che quel treno fosse ad alto rischio. La responsabilità, per il giudice, era da attribuire ad un errore umano del macchinista dell'interregionale Vincenzo De Biase, morto nell'incidente. Ma per molti qualcosa non funzionò nei sistemi di sicurezza, forse carenti, o meglio inesistenti.
«Daniel era un vulcano in esplosione, pieno di idee e inventiva - ricorda la mamma -. Studiava lingue, ne parlava correttamente cinque. Sarebbe diventato un diplomatico o chissà cos'altro. Ricordo che quel giorno terribile telefonammo alla questura, agli ospedali e poi andammo a Bologna. Era in obitorio, lì venni a sapere che era morto».
In tanto dolore, una piccola richiesta viene da Alessandra per le autorità locali: «Chiedo al Comune di Crevalcore di tenere pulito il monumento alle vittime. Inizia ad essere malandato, è pieno di muschio, e ogni volta che porto un fiore dopo poco sparisce».
Quei macchinisti, quei pendolari, quei viaggiatori per caso come Daniel Burali sul cippo sono ricordate come Vittime, con la maiuscola.
Oltre alle decine di feriti, o diciassette morti hanno tutti un nome da ricordare.
I macchinisti Ciro Cuccinello, Equizio Abate, Vincenzo De Biase. Il capotreno Paolo Cinti.

I viaggiatori Francesco Scaramuzzino, Donatello Zoboli, Diana Baraldini, Claudia Baraldini, Daniel Buriali, Andrea Sancini, Maurizio Mussolari, Banka Bairam, Alberto Mich, Bruno Nadali, Anna Martini, Mario Santi, Matteo Sette.

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