Il giorno che cambiò per sempre lo sport in America

Dopo l'attacco alle Torri Gemelle anche la Nfl decise di fermarsi in segno di rispetto. Non era successo nemmeno dopo l'assassinio di JFK. Appena si tornò a giocare, una tragedia evitata fece debuttare il più grande giocatore di tutti i tempi

Il giorno che cambiò per sempre lo sport in America

L’idea che abbiamo dello sport americano è che sia più una questione di denaro che di sentimenti. La narrativa dominante è semplice: nel Vecchio Continente c’è la passione e la storia, in America si è disposti a tutto pur di incassare un dollaro di più. L’equazione non potrebbe essere più fuorviante. Le franchises sono aziende condotte in maniera estremamente professionale ma vivono della passione sterminata dei tifosi. Se è verissimo che molti preferirebbero farsi togliere i denti senza anestesia piuttosto che cambiare le sacre schedule televisive, ci sono le eccezioni che confermano la regola.

11 settembre Ground Zero ANSA

Prima della pandemia, un fine settimana senza sport sembrava impossibile: troppi soldi in ballo, si era sempre trovato il modo di andare avanti. Eppure, ventidue anni fa, l’intero mondo dello sport decise di fermarsi, colpito al cuore dall’attacco che avrebbe segnato la storia del 21° secolo. Ecco perché questa settimana “Solo in America” vi riporta nella Grande Mela per raccontarvi come si arrivò a questo stop e come il ritorno allo sport ebbe una conseguenza imprevista; il debutto del più grande giocatore di football di tutti i tempi.

Il fine settimana senza sport

L’intero pianeta rimase basito di fronte a quelle immagini che sembravano prese da un film, gli immensi grattacieli che si accartocciavano su sé stessi. Il colpo fu più duro per chi giocava a New York: Greg Comella, giocatore dei Giants, il 15 settembre fece visita con qualche compagno di squadra ai soccorritori che lavoravano a Ground Zero. Non dimenticherà mai quei pompieri e paramedici: “uno di loro mi ha detto che stava lavorando da 20 ore nonostante suo fratello fosse morto nelle Torri Gemelle”. Eppure molti pensavano che lo sport sarebbe dovuto andare avanti lo stesso, per dimostrare che nemmeno quell’attacco inconcepibile poteva mettere in ginocchio il paese. Alla fine non se ne fece di niente: tutti gli sport, dalla Nfl al baseball, dal college football alla Nascar decisero di prendersi una pausa.

11 settembre ponte ANSA

Scorrendo l’elenco delle vittime, i nomi degli sportivi caduti sono numerosi, come Mark Davis e Ace Bailey, scout per i Los Angeles Kings che erano a bordo del volo United 175, il secondo a colpire il World Trade Center. La Dea Bendata, invece, fu generosa con il grande nuotatore australiano Ian Thorpe: quella mattina si stava incamminando verso la cima della torre sud, per fare qualche foto, quando si accorse di aver dimenticato la macchina fotografica. Appena arrivò all’albergo accese la televisione e vide in diretta il secondo aereo colpire proprio quella torre sulla quale si sarebbe dovuto trovare. Il figlio del tecnico dei Jaguars, Tom Coughlin, lavorava al 60° piano della torre sud per la Morgan Stanley ma fu uno tra i pochi che riuscì a scendere le scale e mettersi in salvo.

11 settembre cani FDNY

Joe Andruzzi dei Patriots fu altrettanto fortunato: i suoi tre fratelli pompieri furono chiamati subito. Mentre stava salendo le scale notò che un suo collega stava male. Jim si fermò e lo aiutò a tornare al piano terra. Appena arrivato all’ambulanza, la torre nord si schiantò alle sue spalle. Joe non dimenticherà mai quelle ore orribili: “Sono fortunato, mio fratello ce l’ha fatta. Altri hanno avuto notizie ben più tristi”. I campioni dello sport furono i primi a schierarsi perché lo sport si fermasse: Curt Schilling, lanciatore dei Diamondbacks, invitò tutti i giocatori professionisti a donare lo stipendio della partita alle vittime dell’attacco. Altri furono ancora più netti: non avrebbero giocato in nessun caso. La stella degli Steelers Jerome Bettis disse che non sapeva se “il paese abbia voglia di essere intrattenuto in questo momento”: preferì andare a Somerset, in Pennsylvania, dove il volo United 93 si era schiantato in un campo invece di colpire la capitale.

La scelta impossibile della Nfl

Col senno di poi sembra impossibile considerare l’ipotesi di continuare come se niente fosse ma la Nfl si trovò di fronte ad una scelta davvero difficile. A rendere ancora più complicata la scelta, il fatto che il quartier generale della lega è proprio a Manhattan e che un paio di persone che lavoravano per la Nfl persero persone care in quel giorno maledetto. Qualcuno si trovò troppo vicino all’azione: i Giants erano arrivati all’aeroporto di Newark la mattina presto: l’aereo accanto al loro era proprio il volo 93 della United. John Mara ricorda come fosse tornato in ufficio per dormire qualche ora: quando il secondo aereo colpì il World Trade Center, salì in cima allo stadio per vedere le due torri in fiamme.

Vinny Testaverde, quarterback dei Jets, ricorda come nella sala pesi tutti guardavano la televisione quando il secondo aereo colpì la torre. “Mi domandai ‘siamo davvero sotto attacco’? Chiamai mia moglie e le chiesi di prendere i bambini a scuola. Tornai a casa, per stare assieme alla mia famiglia: i parenti vennero tutti da me, seguimmo tutto come se fosse un brutto sogno”. Il commissioner della Nfl Paul Tagliabue si mise subito al lavoro: chiamò il dirigente del sindacato dei giocatori Gene Upshaw per essere pronto al peggio e convocò alcuni dei proprietari più attivi della Nfl per valutare il da farsi.

11 settembre NFL bandiera
Fonte: Twitter (@LakersGrrrrl)

“Cosa diavolo ci facciamo qui?”

La domanda era subito evidente: andare avanti o fermare tutto? L’ultima volta che c’era stato un evento altrettanto traumatico, l’assassinio del presidente John Fitzgerald Kennedy, la Nfl aveva giocato solo 48 ore dopo ma su invito dell’addetto stampa della Casa Bianca Pierre Salinger. Stavolta nessuno sapeva cosa fare. Il primo passo fu di invitare le squadre a fare allenare i giocatori il giorno dopo, giusto per evitare infortuni nel caso si dovesse giocare. Quando fu intervistato dai media il mercoledì, la risposta laconica di Testaverde, cresciuto a Long Island, fece il giro dell’America: “Cosa diavolo ci facciamo qui”. Vinny e diversi altri giocatori avevano fatto sapere che non sarebbero scesi in campo: “Gli dissi che non avrei giocato contro i Raiders. Se mi dovete mettere in panchina, poco male. Licenziatemi pure, non mi importa. Ci sono cose più importanti del football in questo momento”.

I Jets furono i primi a riunirsi ed i giocatori fecero sapere che non sarebbero scesi in campo. La franchise della Grande Mela avvertì il commissioner che si trovò con una patata bollente da gestire. I rappresentanti della Nflpa, il sindacato dei giocatori, aspettavano il verdetto degli spogliatoi delle due squadre di New York per decidere il da farsi. Non fu una scelta unanime: alcuni giocatori volevano scendere in campo per non darla vinta ai terroristi e ci furono alcune liti tra i proprietari delle squadre, indecisi sul da farsi. Il problema più spinoso era quello del calendario: quando giocare le partite della seconda giornata? Il Super Bowl era previsto per il 27 gennaio 2002 a New Orleans; come si faceva a cambiare data? Sarebbe costato una fortuna.

Ci vollero un paio di giorni per decidere: c’è chi ricordò come il presidente Roosevelt avesse autorizzato le società a continuare i campionati subito dopo l’attacco a Pearl Harbor. La differenza la fece la famiglia Mara ed il governatore dello stato di New York George Pataki: non possiamo giocare, il rischio di ulteriori attacchi è troppo alto. Giovedì mattina uscì il comunicato: la Nfl si sarebbe fermata per la prima volta, senza sapere quando recuperare le partite o come sarebbe cambiato il calendario dei playoff. D’altro canto, come avrebbero potuto fare altrimenti? John Mara ricorda come al Giants Stadium c’era un parcheggio scambiatore. I pendolari lasciavano le macchine per prendere l’autobus. Dopo l’11 settembre quando vedevi le stesse macchine al solito posto sapevi bene cosa voleva dire: i proprietari erano morti.

John Mara 2011

La tragedia che fece grandi i Patriots

Dopo il tempo del cordoglio, arrivò il momento di tornare a giocare. La Nfl preparò un video da mandare in onda in ogni stadio con Jon Bon Jovi, ci sarebbe stata una raccolta fondi per le vittime in ogni stadio, con uno stivale da pompiere per raccogliere le offerte. Entrambe le squadre di New York erano in trasferta: i Giants a Kansas City mentre i Jets giocavano a Foxborough contro i New England Patriots. Vinny Testaverde era il più nervoso. “Mentre mi preparavo nello spogliatoio avevo appeso un poster con le facce dei pompieri morti. Uno di loro era stato un mio compagno di squadra alle superiori. Fu una giornata difficile per me”.

Si accorsero tutti che non era una partita normale quando si presentarono in campo per il riscaldamento: anche a Boston, città divisa da una rivalità secolare con New York, tutti li applaudivano, come se rappresentassero i 3000 caduti nell’attacco. Andruzzi ricorda un gesto speciale del proprietario dei Patriots: “Il signor Kraft mi chiese se i miei fratelli pompieri avrebbero gradito partecipare alla partita, come capitani onorari dei Jets. Vennero in uniforme, rappresentando tutti coloro che sono morti quel giorno. Spero che sia la prima e l’ultima volta nella quale i tifosi dei Jets e dei Patriots si tenevano tutti per mano”. Nessuno, però, poteva sapere che quella partita avrebbe segnato per sempre la storia della Nfl, marcando il giorno nel quale i Patriots si trasformarono da cenerentola a superpotenza del football, iniziando una delle più grandi dynasties della storia dello sport.

Brady Bledsoe 2001
Fonte: Twitter (@brgridiron)

A guidare i padroni di casa c’era uno dei migliori quarterback della lega, un talento assoluto che si era assicurato un contratto milionario e prometteva di fare grandi cose alla guida dei Patriots. Drew Bledsoe era il padrone dello spogliatoio del vecchio Foxborough: magro ma solido, un lavoratore indefesso cui il destino aveva concesso un braccio magico ed un’etica del lavoro a prova di bomba. Bledsoe sembrava invulnerabile, capace di resistere alle ruvide difese della Afc e portare a casa il tanto agognato primo Super Bowl, sfuggito sempre in quel di Boston. Quella sembrava una partita come tante altre, uno scontro tra rivali di division, importante per arrivare ai playoff ma il talento di Ellensburg non si sarebbe mai immaginato che avrebbe rischiato di perdere la vita. Proprio in quel giorno, quando si festeggiava il ritorno alla normalità, l’incubo peggiore della Nfl, la morte in campo di un giocatore, stava per diventare un’orribile realtà.

Placcaggio Lewis Bledsoe
Fonte: Twitter (@tonecomvp)

La nascita di Tom Terrific

Le cose non andavano per il meglio: a metà del quarto quarto sembrava l’ennesima stagione deludente. Dopo aver perso la prima partita, New England era sotto 3-10 contro i Jets. Il proprietario Robert Kraft, che aveva cacciato a pedate il grande Bill Parcells per sprecare una prima scelta al draft per assicurarsi i servigi di Bill Belichick si teneva la testa tra le mani. Il tecnico aveva dubbi su Bledsoe ma l’anno prima aveva firmato un contratto pesantissimo: 110 milioni per 10 anni, impossibile cambiare. Terzo down, 10 yards da guadagnare, ricevitori coperti. Bledsoe decide di correre ma la difesa se ne accorge. Invece di uscire dal campo, prova a raggiungere il primo down. Per sua sfortuna, Shaun Ellis lo prese alla caviglia, così che quando Lewis lo placcò lo colpì non alla cintura ma molto più in alto. Il telecronista si lasciò sfuggire un’esclamazione: tutti capirono la serietà dell’infortunio.

Il quarterback di riserva, un certo Thomas Edward Patrick Brady Junior, si precipitò a dare una mano, accorgendosi subito di come non riuscisse a parlare normalmente. Quel pomeriggio non riuscì a combinare granché, portando a casa la prima sconfitta da titolare. Drew Bledsoe, nel frattempo, sembrava essersi ripreso ed era riuscito a camminare fino allo spogliatoio. Un medico dei Patriots notò come il quarterback titolare non avesse una bella cera. Lo convinse a seguirlo in infermeria, probabilmente salvandogli la vita. Il cuore andava a mille, l’opposto di quello che succede di solito dopo una concussione, qualcosa non andava. Pochi minuti dopo era in un’ambulanza, diretto a velocità folle verso l’ospedale. Ci volle un’operazione d’urgenza per evitare il peggio. L’emorragia interna lo avrebbe ucciso nel giro di qualche decina di minuti. Quando si svegliò con un tubo che gli usciva dal petto, si rese conto di essere andato davvero ad un passo dalla morte.

Brady Jets Patriots 2004

Il giovane panchinaro sapeva già dai tempi di Michigan come la vita di un quarterback fosse legata ad un filo. Le luci del palcoscenico possono durare un secondo o una vita: dipende tutto da quanto ti impegni ogni singolo giorno. Nessuno lo sapeva, ma quel giorno è nato Tom Terrific, uno dei tanti soprannomi che i tifosi hanno dato al giocatore più vincente della storia del football. Ad inizio dicembre, quando i Patriots arrivarono in New Jersey per rendere il favore ai Jets, Bledsoe era uscito dall’ospedale, riuscendo a tornare in condizione in tempi da record ma Tom Brady si era preso la squadra. Belichick aveva trovato il “suo” quarterback. Quel giorno i Patriots vinsero e Bledsoe, il giocatore più pagato della lega, non aveva giocato neanche un minuto.

Come Brady divenne Brady

Ventidue anni dopo quell’infortunio, Tom Brady sta vivendo la sua prima stagione senza football. Drew Bledsoe, ad appena 51 anni, vive in Oregon. Si tiene occupato: si dice che i vini della Doubleback, la sua ditta, non siano affatto male. Brady è una leggenda dello sport ma soprattutto, è diventato un simbolo della lotta contro il tempo, rimanendo sempre al top nonostante l’età. Nel febbraio 2020, quando un altro ossessivo dello sport, quel Kobe Bryant cui Brady si sentiva da sempre molto vicino, morì in un incidente assurdo, il campionissimo dei Patriots ammise di aver sentito la perdita in maniera molto personale. Su Twitter scrisse “Ho imparato molto da questa tragedia ma perché mi ha toccato così profondamente. Perché mi ha tenuto sveglio la notte, facendomi piangere così tanto?”. La lezione sembra sempre la stessa: fai quello che ami più a lungo che puoi, perché potrebbe finire domani.

Tom Brady Kobe Bryant
Fonte: Twitter (@JZiela1)

La cosa veramente curiosa è che questo atteggiamento l’ha imparato proprio dal quarterback al quale portò via il posto in squadra. Bledsoe sembrava un predestinato ma bastò un placcaggio andato male per rovinargli la carriera. Il football, a volte, funziona così: la parola d’ordine è sempre la stessa, next man up, avanti il prossimo. Nel 1998 giocò con l’indice della mano con la quale lanciava rotto e riuscì a mettere comunque due passaggi vincenti a meno di 30 secondi dalla fine. Brady disse “non ho mai visto nessun giocatore più tosto di lui”. Eppure non esitò un secondo quando si trattò di prendersi il posto da titolare.

Brady Titans Patriots 2020

Un finale agrodolce

Bledsoe aspettò l’occasione giusta: l’anno dopo nell’Afc Championship contro i Pittsburgh Steelers. toccò a lui scendere in campo. Fece di tutto per riprendersi quel posto che sentiva suo di diritto, portando a casa l’accesso al secondo Super Bowl di fila. In campo nella finalissima, però, tornò Tom Brady. A quel punto seppe reinventarsi, andando dai rivali di division di Buffalo. Per un paio di anni dimostrò che ne aveva ancora ma non finì benissimo. Quando i Bills scelsero al draft un nuovo quarterback, la prospettiva di tornare in panchina fu troppo per lui. Se ne andò a Dallas, dove ritrovò coach Bill Parcells. Anche quando il fisico iniziava a chiedere dazio fece il suo. Quando si fece avanti un altro quarterback di talento, Tony Romo, decise di averne abbastanza.

Bledsoe Bills Dolphins 2003

Bledsoe chiuse come il quinto nella storia della Nfl per passaggi tentati e completati, settimo per numero di yards lanciate e tredicesimo nel conto di passaggi da touchdown. Una carriera più che onorevole, oscurata da quel ragazzino che gli aveva scippato il posto. I tifosi dei Patriots non l’hanno mai dimenticato, però, tanto da farlo entrare nella loro hall of fame. Senza l’11 settembre, forse, quel giorno i Jets avrebbero giocato in maniera diversa, senza voler ripagare un’intera città delle sofferenze subite. Forse Bledsoe non avrebbe rischiato la vita e forse quel ragazzo della California si sarebbe perso come tanti altri talenti nel mondo dello sport.

Bledsoe Giants Cowboys 2006

Ecco perché quell’attacco infame cambiò per sempre il rapporto tra gli Stati Uniti e lo sport. La Nfl imparò che, talvolta, anche lo sport più popolare d’America deve fare un passo indietro ed i tifosi di football impararono ad amare ed odiare quel quarterback che, in un modo o in un altro, trovava sempre il modo di vincere.

Non lo sapevano ancora, ma l’Evil Empire, l’impero del male, avrebbe dominato il football per quasi 20 anni. Una cosa è certa: il football e lo sport a stelle e strisce non torneranno più quelli di una volta. A voi decidere se sarà stato un bene o un male.

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