Non è che non sappia combattere, ma proprio non riesce a fare a meno di avvitarsi in queste nefandezze. Come quando, poco più che adolescente, si dilettava nelle palestre dei dintorni di Pittsburgh, dove era nato, nel 1913. Un gancio destro solido, gambe che sapevano muoversi su cadenze veloci, fisico cosparso di muscoli già guizzanti. Vinceva, l'acerbo Fritzie Zivic - statunitense sì, ma di limpide origini croate - senza però mai riuscire ad esimersi da un condimento infido del match. Un colpetto dove il sole langue. Una testata mentre l'arbitro era voltato. Molto più spesso il pollice del guantone infilato nella pupilla sgranata del suo oppositore. Fritzie vinceva, ma mai limpidamente. Era un pugile scorretto. Sarebbe diventato il più scorretto di sempre.
Aveva iniziato con i professionisti nel 1931. Pesi leggeri. Da allora, Zivic - lineamenti appiattiti e occhi furbastri - era riuscito ad affastellare 33 successi in 44 incontri. Abbastanza per convincersi che era il caso di fare il grande salto, di cambiare categoria. Era così passato ai pesi welter, dove avrebbe faticato soltanto all'inizio, per poi viaggiare in crescendo, verso un titolo mondiale a lungo accarezzato. Il posto giusto sarebbe stato il Madison Square Garden. Il giorno, il 4 ottobre del 1940. C'era da sfidare il grande Henry Armstrong, ma lui non si scompose. Lo sconfisse lì e anche un anno dopo, nella rivincita, davanti a 24mila spettatori.
Dunque Fritzie sapeva combattere, ma intanto quel vizietto orripilante continuava ad accompagnarlo. Nel circuito, con il passare del tempo, non c'era collega che non si lamentasse di lui. Di quel suo modo tribale di intendere la boxe, che in realtà dovrebbe essere uno sport nobile, non certo una rissa da saloon. Lui però la pensava diversamente: doveva vincere ad ogni costo. Anche se questo significava perdere la stima di pubblico, stampa e avversari. Con la peculiarità, che faceva ancora più andare ai matti, che dopo ogni colpo proibito pareva quasi genuflettersi, tremendamente mortificato, per chiedere scusa.
Ad un avversario che lo rimbrottò per quello stile sguaiato rispose per le rime: "Sei su un ring, mica ad un concerto di musica classica". Nella sua personalissima lista annoverava torme di colleghi offesi dalle sue utilitaristiche cattiverie: Henry Armstrong, Charley Burley, Sammy Angott, Lew Jenkins, Freddie “Red” Cochrane, Al “Bummy” Davis, Johnny Jadick, Anthony “Izzy” Jannazzo, Jackie Burke, Eddie Booker, Harry Weekly, Bobby Pacho, “Baby” Salvy Saban, Kenny LaSalle, Kid Azteca, Milt Aron. Solo per citarne alcuni.
Però era davvero scaltro, Fritzie. Sapeva con chi non era il caso di tirare la corda. Contro Jake LaMotta, per esempio, decise di astenersi da ogni genere di possibile scorrettezza e di boxare pulito. Non era proprio opportuno fare infuriare il toro scatenato del Bronx. Altre volte si circondava dei suoi quattro fratelli, tutti più o meno pugili, per farsi scudo quando usciva dal ring e qualcuno veniva a cercarlo. Oppure per proseguire con i soprusi, come raccontò il pugile italiano Saverio Turiello, circondato dopo un match e tornato a casa senza un dollaro, anche se la storiella non è mai stata ufficialmente confermata.
Faceva da contraltare a questo infinito campionario di slealtà la sua vita privata. Tolti i guantoni, Fritzie era un uomo gentile e rispettabile.
Le cronache del tempo lo rammentano come particolarmente amato dalla comunità di Pittsburgh tutta, dove si impegnò per insegnare il pugilato ai più giovani. "Ma non mostrai mai le scorrettezze - disse - solo il lato più bello dello sport".
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.