Quando Donald Trump sfidò la NFL (e perse)

Prima di entrare in politica, il giovane Trump comprò una squadra di football e trascinò in tribunale la potentissima lega professionistica. Il processo finì con un verdetto beffardo ed il fallimento della USFL

Fonte: Twitter (@PrezWisdom)
Fonte: Twitter (@PrezWisdom)

Il mese di agosto è il più lungo per i malati di football. La fine della lunga traversata nel deserto, l’interminabile off season è proprio lì, dietro l’angolo ma quei giorni non sembrano finire mai. Certo, ci sono le prime ‘amichevoli’, i verdetti del training camp, i dubbi sulle scelte dei tecnici ma è come provare a togliersi la fame col prosciutto: non può bastare. Il fatto che lo sport più amato e seguito in America tenga a digiuno i propri tifosi per quasi sei mesi è una delle cose più assurde del mondo degli sport a stelle e strisce. Visto che la fame di football c’è sempre, perché non provare a giocare anche in primavera ed estate? La NFL non ne ha mai voluto sapere: da settembre a febbraio, né un giorno in più, né un giorno in meno. Lo spazio per i concorrenti, quindi, c’è sempre stato e non sono mancati i tentativi di rompere il monopolio della lega sullo sport.

Tom Brady

Sono finiti quasi tutti malissimo ma solo uno di loro ha avuto come protagonista un giovane imprenditore che non vedeva l’ora di conquistarsi le prime pagine. Lo abbiamo imparato a conoscere più tardi, come uno dei più coloriti presidenti ad aver mai guidato l’Unione ma Donald John Trump si fece le ossa guidando una franchigia di football. La vicenda è veramente singolare, visto che il futuro presidente incrociò le spade contro la potentissima NFL, uscendone malissimo. Ecco perché questa settimana “Solo in America” vi porta nel New Jersey, patria dei Generals, la franchigia che portò Trump nei salotti americani prima di trasformarsi in uno dei suoi più imbarazzanti fallimenti.

La chimera dello spring football

Nella lunga storia dei rivali alla corona del football professionistico, la United States Football League ha un posto d’onore, visto che fu la prima ad intuire il potenziale del football in primavera e mettere insieme un campionato niente affatto improvvisato. Non durò molto, dal 1983 al 1986 ma molti in America lo ricordano ancora con affetto, abbastanza da alimentarne la rinascita un paio di anni fa. L’idea era venuta a fine anni ‘70 ad un uomo di affari di New Orleans, David Nixon: dopo aver aiutato i Saints ad entrare nella NFL, provò a convincere altri nel seguirlo nella creazione di una lega primaverile. Ci vollero più o meno tre anni prima di essere pronti a partire, aiutati dalla serrata che dimezzò la stagione del 1982. Tutto sembrava a posto: le 12 franchigie avevano nomi interessanti, curiosi, molte giocavano in città dove il football regnava sovrano e l’idea piaceva non poco alle televisioni. La finale della prima stagione, tra i Michigan Panthers ed i Philadelphia Stars fu trasmessa dall’emittente più seguita in America, la ABC, con una coppia di telecronisti molto conosciuti. Agli spettatori piaceva, la trovavano divertente, sembrava davvero che il football di primavera avesse buone possibilità di farcela. Eppure, poco più di tre anni dopo, fu costretta a chiudere.

Walker Generals
Fonte: Twitter (@theusflproject)

Parleremo dopo di cosa andò storto ma la nuova lega si era mossa davvero bene, forse troppo. Molte franchigie della NFL storsero la bocca quando Herschel Walker, forse il più grande giocatore di college della storia, scelse di andare ai New Jersey Generals ancora prima di finire i quattro anni all’Università della Georgia. Non furono gli unici grandi dello sport a seguirlo: Mike Rozier e Doug Flutie, entrambi vincitori dell’Heisman Trophy, il premio per il migliore giocatore della stagione del football universitario, finirono nella nuova lega. Basta dare un’occhiata ai roster delle varie franchigie per trovare nomi finiti poi nella Hall of Fame: Jim Kelly, Steve Young, Reggie White e tanti altri, abbastanza da rendere le partite molto spettacolari, con un gioco arioso, tecnico, meno massacrante di quanto stava succedendo nella NFL di quegli anni. Le conversioni da due punti, quelle che la NFL avrebbe adottato solo dieci anni dopo, piacevano parecchio ma non mancavano i problemi. La mancanza di un salary cap fu l’inizio della fine per le franchigie minori, incapaci di reggere il passo di quelle più ricche. Alcune fallirono subito ma vennero sostituite subito, tanto che dalla prima alla seconda stagione si passò da 12 a 18 squadre, per poi tornare a 14 nel 1985. Solo sei riuscirono a sopravvivere per tre stagioni, segno che replicare il successo della NFL non era affatto semplice.

Steve Young USFL
Fonte: Twitter (@WrongUnis)

Finì tutto in tribunale, tra una montagna di carte bollate e un viaggio di sola andata verso la bancarotta ma l’eredità della USFL è ancora viva nel football. L’idea di sfidare il monopolio della NFL avrebbe poi spinto un’altra lega, la XFL, a sperimentare tecniche di riprese innovative, che sono usate ancora oggi. Marv Levy e Bill Polian, che avevano fatto molto bene coi Chicago Blitz, trovarono il modo di applicare le lezioni imparate a Buffalo, dove, grazie ad un altro veterano come Jim Kelly, riuscirono a portare i Bills a quattro Super Bowl. Eppure, secondo molti esperti, a causare la fine di questa lega primaverile fu l’ingresso di un giovane ed ambizioso imprenditore dai modi bruschi e con una voglia incredibile di lasciare il segno sul mondo dello sport. L’eredità più duratura della USFL, insomma, fu quella di aver fatto entrare Donald Trump nei salotti degli americani per la prima volta. Nessuno poteva prevedere che non se ne sarebbe mai andato.

Un proprietario sopra le righe

L’ultima partita della storia della USFL, la finale del campionato del 1985, si tenne al Giants Stadium, cavernoso impianto nella sterminata periferia di New York che, oltre ad ospitare i famosi G-Men, vedeva anche le partite casalinghe dei New Jersey Generals. Se la vittoria per 28-24 dei Baltimore Stars sugli Oakland Invaders è passata da anni nel dimenticatoio, molti da quelle parti ricordano ancora la squadra nata con un obiettivo estremamente ambizioso: farsi spazio nell’affollato panorama degli sport della Grande Mela e farlo alla grande, con stile. Meno simpatia è invece riservata al proprietario che la portò alle stelle, prima di causarne il fallimento. La franchigia era stata fondata dal ricchissimo petroliere dell’Oklahoma J. Walter Duncan che aveva fatto le cose per bene, assoldando l’ex coach dei Patriots Chuck Fairbanks ed una serie di giocatori interessanti.

Trump Flutie
Fonte: Twitter (@darrenrovell)

La prima stagione si chiuse con sole sei vittorie, troppo poco per non attirarsi una serie di battute sardoniche dai poco gentili media newyorchesi. Duncan si stancò e vendette tutto al 37enne Trump, che dopo aver ereditato un impero immobiliare, stava cercando il modo di farsi notare. Cosa fece? Licenziò Fairbanks, assoldò l’ex tecnico dei Jets Walt Michaels e spese un mucchio di soldi per assicurarsi una serie di talenti della NFL. I risultati non tardarono ad arrivare: la stagione 1984 finì con un ottimo 14-4, seguito da un discreto 11-7 nell’ultima stagione della lega. Meno bene, invece, nella post-season: i Generals furono infatti eliminati entrambe le volte al primo turno. In realtà Trump voleva fare le cose ancora più in grande, tanto da provare a strappare ai Dolphins il grandissimo coach Don Shula, quello della leggendaria stagione senza sconfitte. Gli offrì almeno un milione di dollari di stipendio per cinque anni ma non volle regalare a Shula uno dei preziosi appartamenti extra-lusso nella sua nuovissima Trump Tower, uno dei posti più esclusivi a Manhattan. Tutto vero o solo una mossa per fare pubblicità alla sua ultima creatura? Chi può dirlo. Quando le parole di Trump furono trasmesse durante l’intervallo di una partita dei Dolphins, Shula cambiò idea e decise di lasciar perdere.

Flutie Generals 2
Fonte: Twitter (@_deadfootball)

Il piano di Trump era semplice: mettere assieme la migliore squadra di sempre e, almeno a giudicare dai talenti che aveva attirato ai Generals era già a buon punto. Herschel Walker arrivò con uno stipendio mostruoso, 4,2 milioni di dollari, il più alto nel football professionistico ma non lo portò lui: fu una pazzia di Duncan, il primo proprietario. Doug Flutie, invece, arrivò per prendere il posto di Sipe dopo aver vinto l’Heisman nel 1984 al Boston College. Il grande quarterback fece un’ottima stagione ma si ruppe la clavicola nel finale di stagione, mancando le ultime tre partite e la sconfitta nei playoff contro Baltimora. Trump non si diede per vinto, convincendo il proprietario degli Houston Gamblers ad una fusione: il nuovissimo “Dream Team” avrebbe avuto Jim Kelly come quarterback, Walker come running back e Ricky Sanders come ricevitore. Trump, modesto come sempre, la definì la “migliore squadra di football di sempre”, attirandosi addosso una sfiga clamorosa. Non lo sapeva ancora, ma nel giro di pochi mesi la USFL sarebbe fallita.

L’azzardo del giovane Trump

L’arrivo nella USFL di Donald J. Trump non passò certo inosservato, specialmente tra i proprietari delle altre franchigie. Al giovane di New York non andava a genio l’idea di giocare la primavera, non era in linea col suo modus operandi. Perché mai accontentarsi delle briciole, quando la torta grossa, quella del football ‘normale’ è in palio. Lui voleva attaccare la NFL, che considerava antiquata, stanca e troppo burocratica. Fin da subito si mise a pressare gli altri proprietari: una delle sue battute preferite era “se Dio avesse voluto che il football si giocasse in primavera non avrebbe creato il baseball” ma a nessuno piaceva l’idea di mettersi contro alla potentissima NFL, che già stava iniziando a mettere i bastoni tra le ruote alle varie franchigie. Per tre anni le sparate del giovane proprietario dei Generals incontrarono un muro compatto da parte degli altri owners ma, alla lunga, i problemi di parecchie franchigie convinsero molti che, forse, confrontare la vecchia lega fosse l’unico modo di rimanere in piedi.

Trump USFL
Fonte: Twitter (@NFL_DovKleiman)

Ted Diethrich, uno dei proprietari della USFL, disse qualche tempo dopo che “fu un grosso errore. Quando decidemmo di spostare il campionato in autunno, fu chiaro che sarebbe stato un disastro”. John Bassett, proprietario dei Tampa Bay Bandits, fu ancora meno diplomatico in una lettera del 16 agosto 1984: “non tollererò più i suoi commenti denigratori. Sarà anche più giovane, alto e forte di me ma non avrò problemi nel darle un pugno in faccia la prossima volta che offenderà me o chiunque non sia d’accordo con le sue proposte”. La lettera, pubblicata da Jeff Pearlman nel suo libro “Football for a buck”, dedicato alla vita e alla morte della USFL, testimonierebbe come i metodi sbrigativi del giovane tycoon non andassero a genio a molti, ancora prima dello scontro frontale con la NFL che avrebbe causato il fallimento della lega. Secondo Pearlman, un noto critico di Trump, il futuro presidente sarebbe stato motivato dall’orgoglio e dalle parole tranchant del commissioner della NFL Pete Rozelle. A quanto pare, in un incontro, gli avrebbe detto che “fino a quando io o i miei eredi saremo parte di questa lega, le assicuro che lei non sarà mai un proprietario di una nostra franchigia”. Ecco perché Trump, fin dal suo ingresso nella nuova lega, avrebbe voluto andare allo scontro, spostando le partite in autunno, anche se la USFL non si era ancora costruita una sua audience.

Trump USFL 2
Fonte: Twitter (@UniWatch)

Jerry Argovitz, proprietario degli Houston Gamblers, disse che fu proprio lui a causare l’implosione del campionato ma le cose erano un po’ più complicate. Le franchigie non riuscivano a tenere il passo delle grandi, l’audience e la pubblicità stavano crescendo ma non abbastanza per convincere i talenti del college a venire nella lega primaverile. Le squadre della NFL, insomma, si erano accorte del pericolo. Quando si resero conto che le televisioni erano state ‘ricattate’ dalla lega, dicendo che se avessero offerto alla USFL un contratto si potevano dimenticare le loro partite, Trump convinse gli altri proprietari a fare causa alla NFL per abuso di posizione dominante. In realtà, secondo Pearlman, il vero scopo di Trump era un altro: costringere la potente ed orgogliosa lega a cercare un compromesso per evitare di dover pagare una fortuna. La sua idea? Un altro merger, simile a quello che, poco meno di vent’anni prima aveva visto la fusione delle due più grandi leghe del football. Il piano di Trump si sarebbe rivelato un errore clamoroso, dalle conseguenze funeste.

La disastrosa testimonianza

Il processo, che vedeva la NFL difendersi dall’accusa di aver messo in piedi un monopolio sui diritti televisivi del football, fu uno dei più popolari e seguiti nella storia dello sport americano. Le conseguenze di una sconfitta sarebbero potute essere disastrose per lo sport più popolare degli Stati Uniti, rimescolando le carte come, forse, solo la fusione tra NBA ed ABA di metà anni ‘70 era riuscita a fare. La telenovela alla US District Court di Manhattan durò per 42 giorni e sembrava che la nuova lega avesse buone probabilità di farcela. La NFL era poco amata per i metodi sbrigativi e al limite dell’intimidazione usati in passato, per non parlare poi del clima che si respirava in città, dove i prodromi della crisi che avrebbe portato al Black Monday del 1987 erano ben visibili. Le strategie delle due parti non sarebbero potute essere più diverse: Harvey Myerson era aggressivo, alzava la voce, era fin troppo scenografico nel portare avanti la causa della nuova lega. Frank Rothman, ex Ceo della Metro Goldwyn Mayer, era l’esatto opposto: distinto, capelli grigi, espressione seria, impassibile ma bonaria. La USFL presentò i propri testimoni prima e Rothman mantenne la calma: sapeva che avrebbe avuto occasione di trasformare la narrativa del “Davide contro Golia” in un clamoroso boomerang.

Trump USFL presser
Fonte: Twitter (@darrenrovell)

Fin dal primo giorno, si era chiesto una domanda semplice: chi è il mio ‘cattivo’? Non gli ci era voluto molto per capire che i modi sbrigativi, sopra le righe del palazzinaro sarebbero state il suo jolly. “Più che pensavo alla strategia, più mi concentrai su Donald Trump. Volevo che la giuria pensasse a Donald contro Golia, che dietro alla causa c’era solo lui. Volevo che si rendessero conto che Trump non era uno qualsiasi, che era uno degli uomini più ricchi del paese. Quando si presentò alla sbarra, fu un disastro per loro. Non avremmo potuto chiedere di meglio”. La testimonianza di Donald Trump fu l’inizio della fine per la USFL, la cui strategia si sfaldò come un castello di carte. I cinque giorni passati da Myerson ad interrogare Pete Rozelle avevano fornito una serie di fatti da usare contro il proprietario dei Generals, per indurlo in errore, a contraddirsi. Quando gli avvocati della NFL presentarono dei documenti alla giuria, firmati da Trump, nei quali si parlava di una strategia per la fusione dei campionati, il piano fu chiaro a tutti: pur di entrare nella NFL dalla porta principale, la stessa lega che l’aveva trattato come un pezzente, Trump era pronto a tutto, anche a condannare al fallimento le squadre meno ricche.

Trump Generals
Fonte: Twitter (@y_fyyy)

Tanto Rozelle aveva risposto a monosillabi, misurato, senza mai lasciarsi andare, tanto Trump non era riuscito a contenersi, a limitare la sua esuberanza, a far notare a tutti quanto trovasse la situazione spiacevole. Il contrasto tra la narrativa del piccolo Davide che sfida il gigante e l’arroganza del giovane imprenditore era fin troppo evidente. La giuria gli si rivoltò contro nel giro di pochi minuti. Patricia Sibilia, uno dei membri, ricorda come “fissava continuamente noi giurati, cercando di capire le nostre reazioni. Quando mi fissò, non distolsi lo sguardo. Era chiaro che stava cercando di intimidirmi. La cosa divertente è che fu proprio lui, il geniale imprenditore, a rovinare tutto. Non era credibile, tutti noi giurati pensammo che fosse solo arrogante e una persona davvero sgradevole.

Un verdetto beffardo

Il 29 luglio 1986, alle 3.55 del pomeriggio, la giuria annunciò di avere raggiunto un verdetto. Erano rimasti chiusi in camera di consiglio per ben cinque giorni, una lunghezza certo poco usuale per un caso relativo alle leggi antitrust. Nessuno sapeva davvero cosa sarebbe successo, visto che la giuria era molto divisa sul da farsi. Le due parti erano convinte di aver condotto il caso al meglio e speravano in un verdetto favorevole ma non ci avrebbero scommesso un solo centesimo. Quando il giudice Peter K Leisure chiese al capo giurato se la giuria era pronta, nell’aula del tribunale non volava una mosca. Una dopo l’altra, le ventisette domande contenute nel caso portato dalla USFL vennero poste e per ventisette volte il capo giurato disse che ognuna delle franchigie della NFL erano parte di questo monopolio. Myerson si trattenne a stento dall’esplodere dalla gioia: per la prima volta una lega professionistica era stata trovata colpevole di aver violato le leggi antitrust, di aver imposto un monopolio illegale in uno sport, sarebbe stata una sentenza storica, in grado di cambiare il mondo. Certo, la giuria l’aveva assolta da otto accuse minori ma la USFL aveva vinto.

Flutie Generals 2
Fonte: Twitter (@_deadfootball)

Carl Peterson, general manager degli Stars, disse che “avevo molti amici nella NFL e quando sentirono la prima parte del verdetto erano terrorizzati. Era chiaro a tutti che la lega era davvero in un mare di guai”. Rozelle era bloccato nel traffico e stava ascoltando tutto alla radio, in diretta: quando sentì che la NFL era stata trovata colpevole disse al suo autista di riportarlo subito in ufficio. Era furioso. Cinque minuti dopo disse di tornare al tribunale e prepararsi a fare festa. Cosa era cambiato? La giuria aveva deciso di compensare la USFL con un dollaro. Non il miliardo di danni che avevano chiesto, un solo dollaro di danni, un verdetto davvero beffardo. Trump era presente, seduto accanto a John Mara, figlio del proprietario dei New York Giants: appena sentì a quanto ammontavano i danni, aprì il portafoglio e consegnò a Trump una banconota da un dollaro. Vera o falsa, la giuria credette che Trump, non riuscendo ad entrare nella NFL, avesse pensato di usare la nuova lega per sedersi comunque al tavolo. Alla fine la lega fu costretta a pagare alla USFL le colossali spese legali, oltre 5 milioni e mezzo di dollari ma non fu abbastanza per evitare che, una dopo l’altra, le franchigie chiudessero.

Walker USFL 2
Fonte: Twitter (@Super70sSports)

Trump se la legò al dito, cercando in qualche modo di vendicarsi. Nel 2014, prima di scendere in politica, provò a comprare la franchigia dei Buffalo Bills, sperando che dopo il pensionamento di Pete Rozelle la lega avesse dimenticato lo sgarbo di trent’anni prima. Non ci riuscì, visto che a spuntarla fu il proprietario dei Sabres Terry Pegula. La faida con la potentissima lega professionistica continua ancora oggi, dopo le derive woke degli ultimi anni ma, almeno a giudicare dagli ascolti, le sparate dell’ex presidente non sono ancora riuscite ad abbattere Golia.

La USFL è tornata a giocare in primavera e sta crescendo, poco alla volta, come avrebbe forse fatto senza l’intervento di Trump. Una cosa è certa: il circo mediatico, alla lunga, non fece altro che consolidare il potere della NFL. Se sarà stato un bene o un male per il football, lo scopriremo solo vivendo.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica