Per un paese “giovane” come gli Stati Uniti, la cui storia è ricca di episodi discutibili, l’unica epica accettabile è quella dello sport. La pietra angolare del melting pot è sempre stato il sogno di diventare ricco e popolare attraverso le imprese fatte in campo. Eppure, ultimamente, anche lo sport, invece di unire la nazione, sembra capace solo di approfondire le divisioni. Figure come Colin Kaepernick, ex quarterback dei San Francisco 49ers, sono più conosciute per le polemiche legate al razzismo che per quello che hanno fatto sul campo. Non tutti, però, sembrano schierati a favore dell’ideologia woke.
C’è anche chi è riuscito a trascendere l’ambito sportivo trasformando l’atto di inginocchiarsi non in un’azione politica ma in una vera e propria dichiarazione di fede. Come successo per Kaepernick, le opinioni su questo giocatore variano enormemente: per qualcuno è un eroe, per altri un mediocre diventato popolare per le ragioni sbagliate. La sua vicenda umana è però interessantissima. Ecco perché questa settimana “Solo in America” vi porta giù in Florida per raccontarvi la storia di Tim Tebow, il più grande QB (quarterback) del college football che, nonostante una serie di fallimenti sportivi, è tuttora popolarissimo tra i conservatori.
Un'infanzia particolare
Timothy Richard Tebow non ha avuto la tipica infanzia di un ragazzo americano, visto che è nato molto lontano dagli Stati Uniti. I genitori si erano incontrati all’Università della Florida e, dopo il matrimonio, si erano trasferiti nelle Filippine per diventare missionari battisti. Costruire una chiesa ed operare in un paese fortemente cattolico non fu semplice, specialmente quando la madre di Tim finì in coma dopo aver contratto la dissenteria. Mentre stava curandosi, si accorse di essere incinta, cosa che preoccupò parecchio i suoi medici. Le cure ricevute avevano causato danni alla placenta, tanto da consigliare un aborto. La famiglia Tebow decise di rischiare, nonostante il rischio fosse elevato sia per la mamma che per il bambino.
Il 14 agosto 1987 Pamela Tebow diede la luce al figlio in un ospedale di Manila. Tre anni dopo la numerosa famiglia decise di tornare a Jacksonville, in Florida, continuando comunque a mettere in pratica la loro profonda fede. I cinque figli furono quindi homeschooled, nonostante Tim fosse dislessico. Al più giovane dei fratelli Tebow piaceva parecchio giocare sia a football che a baseball. Per fortuna di Tim, la legislazione della Florida consente ai ragazzi educati in casa di partecipare agli sport nella loro high school di riferimento, per aiutarli a socializzare.
Dopo aver iniziato come tight end per la Trinity Christian Academy, nel 2003 la famiglia si trasferì in un’altra contea, per permettergli di giocare da quarterback alla Nease High School. Già dall’anno di junior, Tebow si fece notare a livello nazionale per la sua prepotenza atletica e per la precisione dei suoi passaggi. Tim era deciso a vincere, anche quando si trovò a giocare il secondo tempo di una partita con una frattura al perone: pensando fosse solo un crampo, strinse i denti e segnò un touchdown correndo per 29 yards. L’infortunio gli costò il resto della stagione ma fu comunque nominato giocatore dell’anno in Florida. L’anno da senior fu una parata trionfale, con i Panthers campioni dello stato e l’invito all’All-American Bowl organizzato dall’Esercito a San Antonio per mostrare al paese i migliori 78 giocatori delle high school in tutta America. Nonostante fossero molti i college disposti a fare carte false per assicurarsi di averlo nel proprio roster, Tebow decise di giocare per l’alma mater dei genitori, la University of Florida.
II più grande al college
Farsi strada nei Gators, uno dei programmi migliori nella NCAA, non fu semplice: il primo anno partì da riserva, riuscendo comunque a segnare 13 touchdowns. Coach Urban Meyer si accorse che le sue corse potevano essere decisive e spettacolari, come il lancio al volo che valse un touchdown fondamentale contro i rivali di LSU. Questo fu l’inizio dell’era Tebow ai Gators, che dal 2007 in avanti avrebbe dettato legge nel football universitario. Capace di farti male sia correndo che lanciando il pallone, il QB dei Gators diventò uno dei più temuti a livello nazionale, chiudendo la stagione con un bottino assurdo: 32 touchdown lanciati e ben 23 segnati correndo, il settimo migliore nella storia del college football.
La sua stagione da sogno si chiuse con l’Heisman Trophy, il titolo per il miglior giocatore della stagione, che fino ad allora non era mai stato vinto da un sophomore. Nel 2008 Tebow non fu così impressionante dal punto di vista statistico ma dimostrò quanto era cresciuto come leader: dopo una sconfitta all’inizio della stagione contro Ole Miss, pronunciò un famoso discorso, promettendo che da lì in avanti non avrebbe più deluso la Gator Nation. Le cose andarono proprio così: i Gators non persero più una partita, riuscendo a vincere il titolo nazionale battendo in finale Oklahoma grazie ad un lancio in corsa di Tebow.
Nonostante fosse già eligible per il draft NFL, Tebow decise di tornare per l’ultimo anno ai Gators per provare a vincere un altro titolo nazionale. Il quarterback di Florida mise una stagione forse irripetibile, tanto da battere il record della SEC per il numero di touchdown segnati correndo. Il fatto di aver battuto Herschel Walker, uno dei più grandi running backs di sempre, giocando da quarterback è prova provata che giocatori come Tebow nascono molto raramente. Eppure, i suoi 35 touchdown non bastarono per garantire un finale da favola per la sua carriera universitaria. Florida non riuscì ad arrivare alla finale, venendo sconfitta da Alabama nell’SEC Championship per 32-13. Nel post-partita, Tebow a malapena riuscì a trattenere le lacrime. Per fortuna, riuscì a chiudere con il sorriso una carriera memorabile, battendo Cincinnati nello Sugar Bowl. Quello che molti considerano il migliore QB che abbia mai giocato al college sembrava pronto a fare grandi cose e spaccare il mondo nella NFL. Purtroppo, le cose sarebbero andate in maniera molto diversa.
Dalla Tebow-mania al crollo
Nonostante un allenatore lo avesse definito “il quarterback più atletico di sempre” e una serie di successi clamorosi, non tutti nella NFL erano convinti che avrebbe potuto fare bene. L’analista della ESPN Mel Kiper Junior disse che sarebbe stato scelto al massimo nel secondo giro del draft mentre altri esperti azzardarono che avrebbe fatto meglio a tornare a giocare da tight end. Nonostante i tanti critici, i Denver Broncos lo scelsero nel draft come 25^ pick; l’ex Patriot Josh McDaniels si disse convinto che avrebbe potuto fare bene anche nella NFL. “È un leader, lavora duro, ha tutto quel che si può chiedere ad un giocatore nella sua posizione”. Neanche cinque anni dopo, la carriera di Tim Tebow era già finita. Cosa andò storto? Tutto e niente. Se l'anno da rookie non fu il massimo, nel 2011 l’ex Gator visse una stagione magica.
Dopo essere partiti 1-4, McDaniels decise di affidarsi al giovane Tebow, che lo ringraziò con una serie di rimonte al quarto quarto che valsero l’insperato approdo ai playoffs. Nella Mile High City si iniziò a parlare di “Tebow-mania”, visto che niente sembrava impossibile per il potente quarterback. Nel wild card weekend, quando si trovò di fronte gli arcigni Pittsburgh Steelers, Tebow mise la migliore partita della sua carriera da professionista. A parte le 316 yards, tutti a Denver ricorderanno la bomba da 80 yards a Demaryius Thomas che consegnò ai Broncos la vittoria all’overtime. Purtroppo, la storia non ebbe un lieto fine: la settimana dopo si trovarono di fronte i Patriots di Tom Brady, uscendo sconfitti con un pesantissimo 45-10. John Elway, ex stella dei Broncos, subito dopo l’uscita dai playoff si disse certo che Tebow sarebbe rimasto a lungo a Denver: “Tim si è guadagnato il diritto di partire da titolare l’anno prossimo”. Eppure, Tebow non sarebbe più sceso in campo per i Broncos.
Nonostante fosse considerato un eroe da molti tifosi, le cose dietro le quinte non andavano affatto bene. Tebow sbagliava parecchio e non era nemmeno così benvoluto dall’organizzazione dei Broncos. A giocare contro all’ex QB di Florida, paradossalmente, l’esser circondato da un gruppo di tifosi scatenati, attirati più dalle sue sfacciate professioni di fede che dalle prove messe in campo. Tebow era solito inginocchiarsi ma non per protestare contro il razzismo; no, lo faceva solo per mettersi al servizio di Dio. Scriveva versetti della Bibbia sul casco, era sempre pronto a mostrarsi umile e devoto davanti alle telecamere, anche se, a sentire molti dirigenti di Denver, le cose erano decisamente meno tranquille dietro le quinte. Ogni volta che andava a parlare nelle grandi chiese della Bible Belt, Tebow chiedeva cachet importanti, dell’ordine di decine di migliaia di dollari. A lui sembrava normale chiedere altrettanto quando andava a presenziare gli eventi delle charities collegate ai Broncos, cosa che faceva andare in bestia sia la NFL che la dirigenza.
A rovinare tutto per l’ex beniamino dei tifosi John Elway fu il fatto che criticare Tebow divenne quasi impossibile. Quando alla radio osò dire che il futuro del quarterback a Denver non era sicuro, fu preso a male parole come se “avesse bruciato la bandiera americana davanti ad una chiesa”. Gli allenatori raccontano un’altra storia: Tebow era “pessimo”, incapace di leggere le difese e mettere in pratica gli schemi di gioco. Un suo compagno di squadra fu particolarmente tranchant: “Tim non ha la minima idea di quel che sta succedendo in campo”. Una bordata ad alzo zero che fa capire come a Denver molti fossero ansiosi di liberarsi al più presto di questa patata bollente.
Da un fallimento all'altro
Per risolvere il problema Tebow, John Elway decise di tagliare il nodo gordiano: per la stagione 2012 si sarebbe affidato al grande Peyton Manning, anziano ma affidabilissimo. Dove finì Tim? Ai New York Jets, in cambio di due pick al draft. I limiti dal punto di vista dei lanci e della reattività contro le difese erano evidenti a tutti, tanto da convincere Rex Ryan a cambiare l’attacco, puntando regolarmente sulla potenza delle corse di Tebow. Neanche con un attacco fatto apposta per lui, l’ex Denver riuscì a convincere. Pochi mesi dopo, la rivolta nello spogliatoio era evidentissima: se c’era chi lo definiva “pessimo”, altri lo consideravano buono solo per le corse. In allenamento Tebow non funzionava e la fiducia nei suoi confronti era ai minimi storici: un allenatore disse che per convincerli a metterlo in campo al posto del non eccelso Mark Sanchez ci sarebbero voluti qualcosa come cinque intercetti.
Quando l’attacco Wildcat si rivelò poco efficace, il futuro di Tebow nella Grande Mela era già segnato. Dopo una stagione ampiamente deludente, i Jets decisero di sciogliere il contratto: con la maglia verde e bianca aveva lanciato per solo 39 yards. Coach Ryan ebbe a dire che, nonostante il grande rispetto, le cose “non erano andate come avevamo sperato”.
A dare una nuova possibilità a Tebow ci pensò il tecnico che l’aveva voluto a Denver. Tornato alla corte del maestro Belichick come offensive coordinator, pensava di poterlo usare nel gioco di corsa, alternandolo a Tom Brady. Il piano sulla carta aveva senso ma bastarono poche partite della pre-season per far capire che nemmeno in una dynasty come quella dei Patriots avrebbe potuto trovare spazio. Troppi errori, troppe imprecisioni, una stampa e una tifoseria con zero pazienza, Tebow non ebbe nemmeno il tempo di iniziare la stazione. Gerry Callahan del Boston Herald capì come sarebbero andate le cose: “I compagni di squadra diranno che è stato un grande, gli allenatori che era perfetto, i tifosi metteranno nel cassetto le maglie, Tebow se ne andrà benedicendo tutti. E noi faremo finta di non sapere perché non ha funzionato”. In una serie di tweet, ringraziò i Patriots per l’opportunità di aver fatto parte di un’organizzazione perfetta. Vista l’età, Tebow non era ancora pronto a gettare la spugna. “Continuerò ad inseguire senza sosta il sogno di una vita; giocare come quarterback nella NFL”. Ci sarebbero voluti due anni prima di avere un’altra possibilità di giocare, non molto lontano da Boston.
Prima dell’inizio della stagione 2015, a quattro anni dall’ultima partita giocata da titolare, Tim Tebow firmò un contratto di un anno coi Philadelphia Eagles. Non si sarebbe giocato la posizione da QB1 ma un posto in panchina. I media erano convinti che, stavolta, le cose sarebbero andate in maniera diversa: Tebow aveva lavorato con un allenatore privato ed era migliorato molto nei lanci. Effettivamente nelle quattro gare della pre-season, l’ex Florida sembrava un altro: ogni volta che scendeva in campo lanciava discretamente, mettendo due touchdown, un solo intercetto e correndo per 82 yards.
Purtroppo non era abbastanza per convincere gli Eagles a dargli una possibilità. Coach Chip Kelly disse che aveva “bisogno di giocare di più. Ha fatto molto lavorando da solo ma per fare il prossimo passo bisogna entrare in squadra, allenarsi con l’attacco”. Per l’ennesima volta, Tebow si mostrò magnanimo, ringraziando gli Eagles per avergli dato l’opportunità di giocare lo sport che aveva sempre amato. In realtà ne aveva avuto abbastanza. Tim era pronto a cambiare vita.
Dal baseball al ritiro
Dopo esser rimasto popolare facendo telecronache per la ESPN, nell’agosto 2016 Tim Tebow tornò a fare notizia: da ora avrebbe giocato a baseball. Se l’era sempre cavata ma non giocava dai tempi delle superiori. La cosa fece notizia, riportando alla mente la scelta di un certo Michael Jordan. 28 delle 30 squadre della MLB si fecero vive per vederlo allenarsi, tanto da convincere i New York Mets a metterlo sotto contratto. Non sarebbe entrato subito in prima squadra ma si sarebbe messo in gioco a partire dalle minor leagues, i campionati meno popolari del baseball. Tebow partì col botto, mettendo un fuoricampo sul primo lancio ricevuto in carriera. La cosa si sarebbe ripetuta, come se Tim s’illuminasse solo quando vedeva la lucetta rossa della telecamera.
Avrebbe fatto lo stesso coi Columbia Fireflies nel 2017 e nella prima partita nel campionato Double-A nell’aprile 2018. Negli anni passati nelle minor leagues, Tebow mise 18 fuoricampo; non abbastanza da fare gridare al miracolo ma nemmeno troppo male per uno che non aveva mai giocato al college e si era dedicato al football a tempo pieno per undici anni. Insomma, era bravino ma non abbastanza per entrare in prima squadra. I Mets avrebbero voluto tenerselo stretto ancora per qualche tempo, visto che era seguito da un buon numero di tifosi, ma Tim si era stancato. Dopo 3 anni, prima dell’inizio della stagione 2021, appese i guanti al chiodo.
La ragione vera si sarebbe capita poco dopo: dopo esser stato assunto dai Jaguars, il suo vecchio allenatore ai tempi dei Gators, Urban Meyer, aveva deciso di dargli un’altra opportunità nella NFL. Rientrare nel football che conta dopo sei anni è difficile per chiunque, ma a complicare ulteriormente il ritorno in campo di Tebow il fatto che a Jacksonville avrebbe giocato non da quarterback ma da tight end. Il 20 maggio 2021, i Jaguars firmarono con lui un contratto da un anno da circa 920000 dollari per diventare uno dei pochissimi a riuscire a cambiare di posizione nel football professionistico. Tebow si disse “entusiasta della possibilità di mettersi in gioco” e la reazione del pubblico fu entusiastica, tanto da rendere la maglia numero 85 dei Jaguars la più venduta nelle 24 ore successive alla firma. Non solo; tutti e cinque gli oggetti più venduti sul sito ufficiale della NFL erano legati a Tebow, ennesima prova che la “Tebow-mania” era ancora viva e vegeta. Molti ex campioni storsero la bocca: Shannon Sharpe, opinionista della Fox e uno dei più grandi tight end di sempre, disse che si trattava di una trovata pubblicitaria mentre altri erano più possibilisti. Insomma, Tebow era rimasto in forma e non gli mancava certo il physique du role.
Il debutto nella pre-season non andò affatto secondo le aspettative: nei 16 snap giocati, niente andò per il verso giusto. Dopo qualche errore in ricezione, il momento più basso arrivò quando fu chiamato a mettere un blocco, uno dei fondamentali di un tight end. Il difensore se lo scrollò di dosso e Tim finì per colpire un compagno di squadra. Pochi giorni dopo, arrivò l’annuncio che tutti si aspettavano: i Jaguars decisero di rescindere il contratto con Tebow. Le sue parole su Twitter avevano il sapore dell’addio: “grazie di tutto, delle cose belle e di quelle brutte, delle opportunità e dei fallimenti. Non ho mai preso decisioni con la paura di fallire e sono lieto che mi sia stata data la possibilità di inseguire il mio sogno. Grazie ai Jaguars e a chi mi ha dato una mano nel mio viaggio. Sappiamo che Dio, alla fine, fa le cose per il meglio”. La vita di Tim Tebow atleta era ormai finita, raggiungendo una frazione del potenziale mostrato ai tempi del college. Eppure il suo impatto sulla società americana era forse più grande che mai. Il campione, infatti, era diventato un predicatore.
Da atleta a predicatore? Si può
Visto il lungo crepuscolo della sua carriera da professionista, Tebow ha avuto parecchio tempo per preparare il secondo capitolo della sua vita. A parte commentare le partite del college football per la ESPN, ha dedicato sempre più tempo alla fondazione da lui creata a Jacksonville, in Florida. Le iniziative all’insegna della filantropia e della carità hanno però avuto sempre un segno inconfondibile: quello della fede cristiana. I critici sono stati pronti a far notare come, senza il supporto del pubblico religioso, che l’ha sempre considerato un modello di vita da promuovere senza se e senza ma, il quarterback di Florida sarebbe già scivolato nell’oscurità da molti anni. Nonostante le battute ironiche si siano sprecate negli anni, l’affetto di chi considera la fede una parte importante della propria vita non è mai scemato, contribuendo a rendere Tim Tebow un personaggio ben più importante di quanto non abbia mostrato negli stadi della NFL. Il parallelo con Colin Kaepernick, passato dal Super Bowl perso all’attivismo politico di estrema sinistra, è fin troppo facile ma forse inopportuno. Se la “conversione sulla via di Damasco” dell’ex QB dei 49ers è sembrata fin troppo opportuna, Tebow non ha mai nascosto il suo rapporto con la fede, anche quando gli ha causato problemi con i front office della NFL.
Alla fine, però, la scommessa ha pagato. Tebow è sempre sulle prime pagine, gira l’America parlando al pubblico dei fedeli e, ultimamente, si è anche reinventato come autore di libri di successo. L’ultimo, “Mission Possible”, è uno strano misto tra una lunga omelia, un manuale di self-help e un calendario pieno di consigli all’insegna della fede quotidiana, molto pratica. Alzi la mano chi si sarebbe aspettato che il miglior giocatore del college football si sarebbe dimostrato tanto efficace in questa nuova veste. Il messaggio di Tebow è semplice: portare nella vita dei suoi tifosi storie che vengono dalla sua esperienza ma anche da quella di persone speciali che ha incontrato. Ci sono genitori che hanno perso i figli, bambini che lottano con malattie gravi, gente che ha superato ostacoli pesanti nella propria vita, che ce l’hanno fatta tenendo duro e confidando nell’aiuto del Padre Eterno.
Il marchio del giocatore che lottava per alzare al cielo i trofei è sempre lì, ben visibile. Sì, certo, si invita tutti a “mettere gli altri avanti a sé stessi”, a vivere pensando che tutto sia possibile, investendo nel rapporto con Dio e sugli altri, evitando di avere “successo in tutte le cose che non sono davvero importanti”. Le sue parole, in un’intervista a Fox News, sembrano prese da un discorso da spogliatoio: “Non mi sono mai svegliato dicendo ‘è una buona giornata per perdere’. Ma preferisco fare la differenza piuttosto che accontentarmi del successo individuale. Stai usando al meglio i tuoi talenti? Li stai usando per influenzare quel che conta davvero? Per avere davvero successo bisogna puntare alle cose davvero importanti”.
È un messaggio semplice, da libro Cuore ma facilmente digeribile. Chissà, magari in questi nostri tempi complicati, invece dei filosofi potranno essere le parole dirette di un ex campione a cambiare il mondo.
Improbabile, forse, ma se uno sportivo può fare il predicatore e non essere sommerso dalle risate, forse tutto è davvero possibile. Una cosa è certa, però: storie del genere possono succedere “solo in America”.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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