Altro che giro di vite: gli statali l’hanno sfangata

La riforma degli statali, titolano alcuni giornali. E gli uscieri in ozio perpetuo nei lunghi corridoi dei ministeri, tra il via vai di segretarie al bar, leggendo questo titolo si saranno forse turbati. Ma non a lungo, perché anche ad una prima lettura la riforma concordata coi sindacati non cambia niente: la scontenta vita di rendita di troppi statali resterà indisturbata. Già la mobilità limitata alla provincia serve a poco, considerato il difetto di organici al Nord e l'eccesso al Sud, e per di più è su base volontaria. L'assunzione di 300mila precari darà a non pochi di essi il privilegio di fare ancor meno. E verosimilmente il freno alle consulenze esterne limiterà alla fine solo quelle utili, a cui si deve ricorrere per colmare i difetti di competenze. Ma lascerà indisturbate le inutili, che i politici imporranno come prima. Le minacce di licenziabilità dei dirigenti, scritte con dei sindacati che tra l'altro non li rappresentano, sono poi pure meno serie dell'invenzione delle pagelline agli impiegati. Vezzo questo da Urss, e che perciò compiace i riformatori. L'idea di voti, libretti per amministrare gli inetti è tipica di Stati irriformabili e socialismi reali. Quanto infine alla creazione di un'Authority, per premiare o licenziare, di cui si sparla, basti la battuta inglese sui comitati: riunioni di persone che da sole non possono niente, le quali decidono che niente può essere fatto. Insomma, usciere mio, pure stavolta l'hai sfangata.
E proprio male che ti vada, il governo dice che comunque ti prepensionano. Quegli almeno 500mila statali, dei quali temo si potrebbe fare a meno, insomma si tranquillizzino: di loro parte minimissima dovrà andarsene. E trascorrerà dalle rendite statali ben retribuite dietro la scrivania, alle altre rendite del pensionato, però sempre pagate da chi lavora nel settore privato. Forse è il caso infatti che qualcuno ricordi ai lettori il privilegio degli statali. Nel '95 il reddito netto di un dipendente pubblico era in media superiore di circa il 16% a quello di uno privato, nel 2003 il vantaggio saliva a un terzo. Aggiornando i miei calcoli agli ultimi anni, questo bel margine di privilegio peraltro si consolida. E non è che per gli impieghi pubblici negli anni recenti siano aumentate produttività o talenti.
Anzi il cittadino seguita a pagare due volte gli stessi servizi. Con le tasse per non so quante polizie pubbliche, ma anche in compensi per i servizi di vigilanza privati. Con tutte le spese sanitarie pagate di tasca propria, sempre oltre alle tasse. Cogli avvocati o quant'altri che ti devono seguire qualunque pratica pubblica che conti ...malgrado le tasse. E così via. Ora certo non sarebbe equanime dire che i dipendenti pubblici sono tutti oziosi. E però questo Stato ne aiuta troppi a fare il minimo pure quando magari sono animati dalle migliori intenzioni. Quest'accordo così romano, Anni 70, coi sindacati riformerà poco. E dire che quella dello Stato sarebbe la riforma più importante. Ma richiederebbe ben altro: forse un disegno come quello pensato da Miglio. Come potrebbero per esempio in un'Italia confederata e con funzioni accorpate resistere 605mila occupati nelle Regioni e nelle autonomie locali, 261mila nei Ministeri, non so quante polizie ...e il resto? Per riformare gli impieghi pubblici si dovrebbe da capo insomma rifare l'Italia.

Senza di che noi finiremo sempre più come in Campania, ovvero peggio che sotto i Borboni, che erano meglio di Bassolino. Ecco perché è grottesco chiamare riforma quest'accordo. Il conte di Cavour avrà pure avuto i suoi difetti, ma pensare di mettere al suo posto Bonanni è una barzelletta.

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