Andrea Vitali e il concreto demone del baratto

Si possono non amare i romanzi di Andrea Vitali; si può, per esempio, pretendere che la letteratura sia qualcosa di più serio, anche semplicemente di più imbarazzante di queste storie che al pari degli autori cui si ispirano (Soldati, Chiara...) sembrano bonariamente ammonire che i romanzi non sono arte, e farebbero bene a non cercare di esserlo. Si può altresì sorridere di fronte a questi revenants che portano in giro il loro io a vapore; e ipotizzare che allo stesso modo in cui, in alcune regioni della Nuova Guinea, esistono tutt’oggi gruppi di cacciatori e raccoglitori mai lambiti dalla Rivoluzione Neolitica, così sulle sponde di certi laghi subalpini sono sopravvissute, in anni relativamente recenti, comunità senza inconscio, felicemente prefreudiane, mai raggiunte dal vento dissolutore di Vienna.
Detto ciò, il mondo è pieno di snob che adorano la dama, passatempo elementare ed antichissimo; e non solo ne rispettano le regole, ma sono in grado di farlo con un virtuosismo ed una lealtà allo spirito del gioco (di quel gioco; non di un altro) ammirevoli. Già, quelli di Vitali sono giochi nei quali non si può barare: il che, da un punto di vista puramente umano, li pone un gradino sopra gli altri. Si può barare con l’arte, ed avremo allora i romanzi mid-cult che sventolano simbologie orientali o egizie; si può barare anche con l’industria, basta pensare ai racconti prodotti in serie dalle scuole di creative writing, tenuti su dagli espedienti. Ma non si può barare con l’artigianato. L’artigianato può essere brutto o rozzo, ma non è mai falso, e Vitali è uno straordinario artigiano.
Il segreto di Ortelia (Garzanti, pagg. 159, euro 15) si apre con una battuta di caccia alla lepre; rifugiatasi in chiesa, la bestia è uccisa a bastonate dal parroco il quale ha appena finito di sposare Amleto Selva a Cirene Crippa. Lo sposo, scopriremo, ha un corpo sanguigno, ma una testa flemmatica. Quanto alla sposa, sarebbe il classico buon partito, visto che porta in dote una macelleria; peccato porti in dote anche la sua irredimibile frigidità. Basta questo per intrecciare una storia vorticosa: poiché Amleto ha una moglie impervia, assalta invano una procace cliente, Betta, domestica a servizio da un dottore. Il no pasaran è superato con un contratto: carne di femmina in cambio di carne di vitello. Quando Betta resta incinta, il problema non è morale. È che non si sa dove metterla. Una serva incinta è ingombrante. Spostarla avrà un costo, perché l’onore costa: il medico propone dunque di pagare il padre della sedotta. Non c’è mai baratto puro, ma solo un flusso dove la libido, il danaro, la «roba», la rispettabilità e giammai l’amore scorrono, trascinati da un’economia immancabilmente triangolare.


Fino all’ultima pagina, all’ultima provvisoria fermata, che suscita una domanda: cosa accomuna, cosa rende reciprocamente «solvibili» un’erezione, un biglietto di banca e l’approvazione di un parroco? In altre parole, chi è il deus sive natura di Vitali? Chi è il misterioso demone che tiene il banco?

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