Dal punto di vista umano, Arrigo Cajumi (1899-1955), giornalista e critico letterario venuto fuori dalla covata gobettiana, non doveva essere particolarmente coinvolgente e simpatetico, anche se la sua intelligenza critica e la sua verve polemica non passavano inosservate. Quand'egli morì, in una paginetta, di quelle non destinate alla pubblicazione, Curzio Malaparte, che ben lo conobbe, lo presentò come «un uomo tormentato, intristito dalla solitudine, dall'insuccesso, dalla scarsa simpatia di cui si cui si sentiva circondato» e aggiunse, con un pizzico di perfidia, che, per quanto «innamorato della letteratura», egli fu «quant'altri mai negato alle lettere» tant'è che «i suoi tentativi di letteratura narrativa fecero ridere tutta l'Italia».
Dal canto suo, un altro grande giornalista, Giovanni Ansaldo, ne sottolineò l'eccezionale vena di critico, presentandolo come erede del grande Sainte-Beuve, ma aggiungendo, anch'egli con una punta di cattiveria, che l'acredine dei suoi «ritratti letterari» era dovuta al fatto che egli, diplomato ragioniere, non aveva potuto seguire gli studi classici e non conosceva Virgilio. Il che, naturalmente, non era vero: la battuta di Ansaldo era una comprensibile ritorsione contro le accuse di «camaleontismo» che Cajumi, una volta suo grande amico, gli rivolgeva parlandone, magari a mezza bocca, come di un «modello» di «voltafaccia monumentali».
In realtà, per formazione intellettuale ma anche per temperamento, Cajumi era un individualista puro, vicino allo spirito iconoclasta e dissacratorio di Voltaire, Diderot e Saint Simon, esponenti principi di quel Settecento, «il vero gran secolo», da lui tanto amato. Anticlericale e libero pensatore puro volterriano insomma si sentiva schiettamente «libertino» nel senso filosofico ed etimologico del termine: un uomo cioè emancipato da ogni forma di dogmatismo e conformismo intellettuale, Non a caso il suo libro più famoso si intitola Pensieri di un libertino. Lo pubblicò, nell'immediato secondo dopoguerra Leo Longanesi, autodefinitosi «carciofino sott'odio» e altro bell'esemplare di rissoso anticonformista. Il quale ne tagliò, senza dir nulla all'autore, una parte cospicua adducendo, come giustificazione, di non aver carta sufficiente per la stampa: Cajumi, naturalmente, se n'ebbe a male e pensò, persino di far causa, ma poi, grazie alla mediazione di Ansaldo, rinunciò all'idea e si limitò a cambiare editore.
Adesso, a cura di Bruno Quaranta, è uscita una deliziosa raccolta di suoi scritti vari dall'allusivo titolo I miei libertini (Aragno, pagg. 180, euro 25), che strizza l'occhiolino alla sua opera più famosa, ma che, in realtà è ben diverso da quella. I Pensieri di un libertino sono, infatti, uno zibaldone di riflessioni, commenti, ritrattini stilati all'insegna del gusto provocatorio di un moralista d'altri tempi mentre I miei libertini sono un insieme di profili di letterati e uomini politici pubblicati originariamente in varie sedi ma prevalentemente sul quotidiano torinese La Stampa nel quale Cajumi aveva cominciato la sua carriera giornalistica al principio degli anni venti, quand'era diretto da Luigi Salvatorelli, e vi era tornato nel secondo dopoguerra dopo esserne stato estromesso durante il regime fascista.
In realtà, Cajumi era un gobettiano scrisse su La Rivoluzione Liberale e su Il Baretti due delle creature del giovane enfant-prodige del giornalismo e dell'editoria ma eterodosso. Se, per esempio, Gobetti detestava Giolitti e il giolittismo, considerandoli fucina di malaffare e di compromessi immorali, egli invece dava un giudizio positivo del «buon senso» dello statista di Dronero, «il provinciale alla mano». In Giolitti vedeva, in certo senso, un prosecutore di Cavour e nell'Italia giolittiana il proseguimento dell'Italia cavouriana «pacata, ordinata, laboriosissima ed equilibratissima» che aveva «il senso del positivo e del possibile». Ne apprezzava l'empirismo politico, alieno da ogni tentazione ideologica e ideologizzante, che pure ritrovava in alcuni altri esponenti del moderatismo risorgimentale interessati, soprattutto, a portare avanti la faticosa costruzione dello Stato unitario, Non si occupava, più di tanto, di politica e, se proprio lo si volesse incasellare, bisognerebbe metterlo nella schiera di quei «liberali di sinistra» fortemente pragmatici che attribuivano alla libertà un valore strumentale e che esaltavano la giustizia la buona amministrazione. In certo senso era anche un conservatore, non di quelli destinati a diventare «reazionari o social-pagliacci» ma di quelli che esprimevano i valori di una sana borghesia, fucina di un'onesta e seria classe dirigente. Non amava i partiti politici e diffidava del popolo, che, diceva, «di per sé è incapace di far altro che sommosse» e che, in pieno secolo XX mostrava di non avere «più indipendenza, cervello, autonomia di quanto ne avesse nell'anno Mille».
Cajumi fu certamente gobettiano, per il moralismo e l'antidogmatismo, ma lo fu da «eretico», come «eretici» sarebbero stati altri, dello stesso ambiente, come Filippo Burzio, Manlio Brosio, Paolo Vita-Finzi. Per capire i termini del suo gobettismo basta leggere quel bell'articolo del 1948, nel quale definì Gobetti un «romantico che si credeva classicamente cinico» e che «faticò tutta la sua breve vita per riscrivere, con la penna e l'esempio, una nuova storia» senza porsi domande sul «fallimento pratico» di altri intellettuali a lui, in qualche misura, vicini come Gaetano Salvemini e il ribollente mosto dei «vociani».
Non era, o almeno non si considerava, un «letterato puro»: era, piuttosto, un «lettore» attento e un critico implacabile. Aveva il gusto della battuta liquidatoria e dell'aforisma impietoso. Il suo spirito volterriamo si coniugava con la saggezza di Montaigne, l'irriverenza di Saint-Simon, il settarismo di Courier, la capacità ritrattistica di Sainte-Beuve. Con una parola era capace di dare un giudizio definitivo e impietoso: Proust, per esempio, era «insopportabile». Detestava la filosofia moderna, in particolare quella di Croce che aveva dato origine a «quel bubbone della critica estetica che ancora ci avvelena». Era convinto che «il filosofo Croce» stesse «annegando, ancor vivo, nell'oblio» dal momento che dalla sua chapelle philosophique, «a gran fatica costruita e mantenuta», non era uscito «un critico, uno storico, uno scrittore d'ingegno, un'opera seria e duratura».
Cajumi, però, non era solo uomo di «veleni».
Lo dimostrano le belle pagine dedicate a un singolare giornalista e poeta, poliglotta dall'aspetto bohémien e dalla conversazione scintillante, dispensatore di scherzi, Ernesto Ragazzoni, del quale tutti ricordano, almeno, la celebre Elegia del verme solitario: un poeta «controcorrente» che egli, «lettore controcorrente» si sforzò di valorizzare anche contro l'aggrottar di ciglia della critica ufficiale.
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