nostro inviato a Stoccolma
«Mi piace la bottiglia, voglio farci qualcosa». Nacque quarant'anni fa da un'infatuazione molto sensuale e poco alcolica di Andy Warhol per la vodka Absolut la storia di un sodalizio artistico memorabile. Un flirt - innamoramento è termine borghese che mal si addice alla Factory e alla Manhattan underground - che è senz'altro «una delle più felici forme di commistione fra business e arte», culminata nella mostra inaugurata qualche giorno fa allo Spritmuseum di Stoccolma e in cartellone fino ad aprile, dal titolo Money on the wall, «il denaro sulla parete». Ovvero come mischiare le carte e confondere arte e affari.
Tutto muove dal ritrovamento di un Warhol perduto. Antefatto: nei primi anni '80, il padre della Pop Art era già un sacerdote universale di stile, creatività e trasgressione e un'icona accostabile (a pagamento) a un'infinità di marchi, dalla zuppa Campbell al detersivo Brillo, fino ai lassativi e ai mobilifici. Nella sua New York, i gay bar del Greenwich village e del Meatpacking district erano ombelico pulsante di una nuova era e proprio sulle bottigliere del Boy Club, del Saint e dello Studio 54 cominciava a farsi notare un prodotto particolare. Un distillato in un vetro minimale, come i contenitori dei farmacisti medievali. Un'icona a sua volta.
Warhol, che dall'attentato del 1968 conviveva con 7 organi interni lesionati ed enormi problemi digestivi (mangiava solo cibi iperzuccherini come banane e cioccolato) e aveva di fatto abbandonato l'abitudine allo champagne di cui riempiva interi frigoriferi fin dai tempi del primo successo come disegnatore omoerotico, aveva colto la potenzialità evocativa di quella bottiglia. Così quando un dirigente di Absolut nel 1985 gli aveva chiesto di riprodurla in un'opera ad hoc, non aveva esitato. Era stato un successo straordinario, che aveva di fatto dato il via al «nuovo corso» del marchio svedese, diventato da quel momento uno dei maggiori mecenati moderni, grazie a centinaia di opere commissionate ad artisti tra cui Damien Hirst, Keith Haring, Louise Bourgeois e Angus Fairhurst.
Se quella serigrafia su carta divenne subito famosa, si persero invece le tracce di una seconda versione «in blu», realizzata ma mai esposta. Dimenticata in qualche magazzino e poi trafugata da una talpa, di sicuro non finì mai nel bunker a 4 ore di auto da Stoccolma, dove lo Stato svedese custodisce le 850 opere della Absolut Art collection, rimasta di proprietà pubblica dopo la cessione della distilleria a Pernod Ricard nel 2008. Al contrario, l'opera spuntò nel 2020 in un'asta e - dopo una battaglia legale - tornò presto in possesso dei legittimi proprietari.
«Il ritrovamento del Warhol perduto - spiega Mia Sundberg, curatrice della Absolut Art collection - è stato un segno. Avevamo sempre sognato di allestire una mostra su di lui». Per farlo, i vertici della distilleria e dello Spritmuseum - lo spazio che celebra il rapporto fra svedesi e alcol, visitato da centomila persone l'anno - contattano Blake Gopnik, critico d'arte di punta del Washington Post prima e del New York Times poi e soprattutto autore di Warhol, la biografia definitiva del genio di Pittsburgh.
«Il rapporto fra Warhol e la mercificazione dell'arte è noto - racconta Gopnik, mostrando il retro di un quadro su cui lo stesso artista aveva enumerato tutte le possibili accezioni del denaro, da falso a insanguinato, a testimonianza di una vera ossessione per l'aspetto economico -. Quel che ho pensato di mettere in mostra è però un altro aspetto, ovvero la sua capacità di giocare a confondere i piani di arte concettuale e pubblicità».
Passare in rassegna le bottiglie di Coca Cola, i ritratti a pagamento come nella più antica tradizione dei ritrattisti classici, i video realizzati per una gelateria o le riproduzioni del simbolo del dollaro, aiuta a fare piazza pulita dall'illusione che l'arte sia attività virginale e disinteressata. All'incrocio fra il nobile viale dell'arte e la prosaica strada dei soldi, c'è piazza Andy Warhol. E in mezzo alla piazza (e alla mostra) si stagliano le due rappresentazioni della ormai famosa bottiglia di vodka. Nessuno quanto l'inventore della Pop Art ha saputo elevare opere d'arte commerciale nell'immaginario comune. E se la cartellonistica fin de siècle di Toulouse-Lautrec aveva segnato la via, poi battuta dai manifesti Art Nouveau di Alfons Mucha e Leonetto Cappiello, fino al lavoro di Fortunato Depero per Campari, Warhol ha ribaltato i canoni. Mostrando finalmente che il denaro, lungi dall'essere lo «sterco del demonio», è in realtà a pieno titolo connaturato all'arte e che, con buona pace di Damien Hirst per cui «l'arte è la valuta più favolosa», anche i dollari non sono male.
Che a fare da innesco a questa riflessione sul fisiologico rapporto fra arte e affari sia stata una vodka, è sicuramente un caso. Che sia stata Absolut, no. Le riviste artistiche finanziate, le gallerie sovvenzionate, i festival sponsorizzati, le installazioni, le collaborazioni e il monumentale archivio - dove sono custodite le creazioni di Versace e Gaultier, ma anche le incisioni di Lenny Kravitz, gli scatti di Helmut Newton o gli infiniti manifesti artistici che gli studenti americani addirittura ritagliavano dalle riviste delle biblioteche pubbliche per collezionarli o appenderli nelle camere dei college - raccontano di un marchio vicino al mondo della creatività ben prima che l'art washing diventasse di moda nel mondo degli alcolici. «Non sempre commissionare un'opera d'arte è un affare per le aziende - conclude Gopnik -. A volte sono solo spot. Il fatto è che Warhol era il re della business art: aveva una formazione artistica straordinaria e un gusto finissimo per l'avanguardia, ma aveva capito che per rappresentare i prodotti del capitalismo doveva entrarci in prima persona, in un eterno ballo in maschera in cui l'artista si travestiva da testimonial e viceversa.
Ecco perché con Absolut si creò qualcosa di unico».Che oggi quella seconda opera d'arte diventi una bottiglia serigrafata in edizione limitata e che nasca un cocktail abbinato, il Warhol's milk punch... beh, è il marketing bellezza. E anche saper vendere è un'arte.
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