Ataturk, un europeista di ieri nella civiltà di oggi

Un'interessante biografia del «padre di tutti i turchi» colma il vuoto di uno studio sull'uomo che ha trasformato la sua nazione in uno Stato moderno e occidentale

Erano gli anni in cui l'impero ottomano cominciava a traballare e fu forse un cambio della guardia. Un'avvisaglia, come dire, che si era ormai alla svolta. La Turchia stava voltando pagina, stava chiudendo con un passato, anche glorioso, stava sbarcando nell'Occidente. In quegli anni vide la luce l'uomo che sarebbe diventato il «padre di tutti i turchi». Si chiamava Mustafà, un nome come tanti, ieri come oggi. E anche oggi la Turchia sta voltando pagina. Non c'è più il crepuscolo di un impero al capolino, ma c'è un bivio da imboccare e lei, la Turchia moderna, ha deciso: entrare in Europa. È una sfida, ma è soprattutto una scelta di campo, anche geografica, per uno stato grande, importante, lì a mezza strada tra l'Asia e il Vecchio continente, conteso tra Oriente e Occidente, vera testa di ponte fra ortodossia, islam, cristianesimo e, perché no, pure ebraismo. Non erano, in fondo, proprio questi i millet (cioè le comunità) della Turchia che vide i natali del padre di tutti i turchi?
E oggi sono proprio queste le ragioni che fanno della biografia di Ataturk (Atatürk, Salerno editore, pp. 443, euro 29) un volume di capitale importanza in ambito storico e più in generale culturale. Lo storico dell'età contemporanea e turcologo, Fabio Grassi, che ne è l'autore, ha colmato un vuoto enorme che in questi tempi si faceva più forte proprio per la discussa prospettiva di un Europa allargata alla Turchia. Colpevole continuare a sottovalutare la portata di uno dei personaggi che nella storia del Novecento occupano un ruolo fondamentale ma che una cultura di stampo prevalentemente occidentalista ha relegato a una posizione di secondo piano.
Ataturk è l'uomo che ha contribuito a fare del suo Paese una nazione più evoluta, uno stato che guardasse all'Europa come partner privilegiato quando il sogno europeo era ancora lontano nelle menti e nelle idee. Ataturk è l'uomo che ha incarnato la parabola che ha portato la Turchia a candidarsi per un posto in Europa e se oggi il dialogo è aperto, buona parte del merito è di quest'uomo che, alla testa dei giovani turchi, ha saputo sconfiggere il califfo, trasformare mentalità e convinzioni, cambiare le aspirazioni di un popolo.
Certo, la sua opera non è stata indolore: le rivoluzioni, piccole e grandi, più o meno conclamate e celebrate, lasciano scie di sangue e odi solo in parte sopiti. Tuttavia Mustafà Kemal, «giovane turco» prima della Grande guerra e generale durante il primo conflitto mondiale, è l'uomo che ha deposto il sultano e ha trasformato la Turchia in una repubblica. Era il 1923 e lui stesso ne divenne il primo presidente. Autoritario quanto bastava, ma tutt'altro che marxista, riuscì a tenere rapporti di buon vicinato con l'Urss e di grande rispetto con Lenin a oriente e con il fascismo verso occidente. Soprattutto seppe accompagnare la sua nazione a una svolta epocale. Si deve ad Ataturk la laicizzazione della Turchia, la parità dei sessi, l'introduzione del suffragio universale, l'adozione dell'alfabeto latino, l'uso del sistema metrico decimale e del calendario gregoriano. Insomma la trasformazione della Turchia in uno stato occidentale non soltanto da un punto di vista puramente teorico. All'europeismo Ataturk aveva sempre creduto profondamente a tal punto da convincere uno storico delle civiltà come Samuel Huntington a parlare di kemalismo e a teorizzare con questa denominazione che «l'occidentalizzazione di società intrinsecamente non occidentali è possibile, necessaria e in sé desiderabile».
Il libro di Grassi, insomma, colma una lacuna pesante ma assolve anche a un'altra funzione, quella forse di avvicinare e far comprendere un processo iniziato quasi un secolo fa con l'ascesa di Ataturk alla presidenza della Turchia e che proprio in questi mesi si sta forse compiendo con l'ingresso di questa nazione nell'Ue. È un tema caldo, capace di scontentare e scatenare contrasti e reazioni, suscitare rancori negli autonomisti più convinti.

E si ricollega alla spina (mai estratta) e alla croce (mai cancellata) del genocidio armeno che a tanti decenni di distanza continua a conservare tracce profonde ma che dovrebbe invece più seriamente e autorevolmente essere traghettato nella memoria condivisa della storia dell'ultimo secolo.

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