Mi si avvicina un signore, in occasione di una cerimonia in cui era emotivamente coinvolto, e mi consegna il pensiero che gli è venuto di confessarsi, ma ha dubbi perché è passato talmente tanto tempo dall'ultima volta che nemmeno si ricorda più quando fosse stata. Iniziamo un dialogo sereno e profondo. Arriva poi il momento della preghiera e gli propongo il «padre nostro». «Guardi - mi ribatte con sincerità - non so se me lo ricordo. Saranno vent'anni che non lo dico». «Lo diciamo insieme», continuo io. «Padre nostro... padre nostro... che sei nei cieli... che sei nei cieli... sia santificato... sia santificato... il tuo nome... Carlo!». Ovviamente il nome è di fantasia per tutelare all'estremo il segreto confessionale. Come è possibile? «il tuo nome... Carlo?». Rido? Piango? Ribatto? Mi gelo. Lui capisce e colgo un disagio. Facendo finta di nulla continuo «venga il tuo regno... venga il tuo regno». Ci salutiamo.
Mi resta in testa quel nome, suonato in modo così assurdo, a me sembrava, finché mi trovo in una prospettiva diversa. A suo modo era un «padre nostro» personalizzato, ci aveva messo la faccia, ci aveva messo dentro tutto se stesso. Aveva avuto il coraggio di dire «io», cosa sempre più rara nel contesto in cui viviamo. Ci sarebbe tanto bisogno di tornare a sederci sui banchi della scuola di Barbiana, paesino sperduto sulle colline del Mugello, vicino a Firenze. Lì era stato esiliato un prete scomodamente intelligente: don Lorenzo Milani. Di famiglia benestante, con la madre triestina di
origini ebree e il padre proprietario terriero toscano. Trasferitisi a Milano, frequenta il liceo classico e poi l'Accademia di Brera. Nel 1934 si converte. Diventa sacerdote nel 1947.
Nel 1954, a causa di incomprensioni con la curia di Firenze, arriva a Barbiana. Gli abitanti sono pochissimi. La piaga dell'analfabetismo è diffusa e il parroco trasforma la sua casa in scuola. Non ci sono strutture e non c'è l'obbligo. Anzi, i genitori faticano a comprenderne l'utilità, visto che bimbi e bimbe sono braccia già buone per il lavoro contadino e domestico. Sulla porta della stanza al piano terra dove insegna a leggere e scrivere mette un cartello in inglese: «I care», mi prendo a cuore. (Se qualcuno passasse nelle zone, consiglio la visita: quel cartello è ancora lì, come se il tempo si fosse fissato e fa venire la pelle d'oca).
È diametralmente l'opposto del motto dannunziano «me ne frego», famoso in quel periodo. Quell'inglese poi è qualcosa che stride, che sembra assurdo, ma interroga, proprio come è successo a me con quell'inaspettato: «il tuo nome... Carlo». La scritta però don Lorenzo la colloca sulla porta all'interno, così che gli alunni possano vederla quando escono. Ciò che a lui interessa non è l'entrare a scuola per imparare una lingua straniera, come proposta avveniristica per quel periodo, ma è l'uscire con uno stile altro e alto, prospettiva ancora più ardita. Da questa scelta maturerà, nel 1967, la famosa pagina
di letteratura Lettera a una professoressa. «I care» è il coraggio di dire «io»: io ci sono, io ci sto, io mi prendo a cuore, io mi ci gioco, io mi metto in discussione, io mi prendo la responsabilità, io ci metto la faccia. Nella nostra attualità sofisticata dove spesso i piccoli parlano l'inglese più fluidamente dei grandi, sono convinto che ci sia bisogno ancora di questo cartello sulla porta di ogni classe ma anche di ogni ufficio, di ogni stanza di potere ma anche di ogni posto di lavoro, di ogni negozio e di ogni luogo di ritrovo e soprattutto sulla porta di ogni casa perché sempre di più non è mai responsabilità di nessuno. Nel corsi di personal coaching si usa spesso l'idea di don Milani - senza riconoscergli la paternità - nel passaggio da «to cure» a «I care», dal curare al prendersi cura.
Sono due logiche molto diverse: la prima è produttrice di utilità, la seconda è generativa di senso.
Ho la percezione che silenziosa si stia diffondendo la piaga di un nuovo analfabetismo, non scolastico, ma relazionale: un analfabetismo affettivo. Quel vecchio cartello è attualissimo e ci riguarda da vicino: «I care», mi prendo a cuore, ci metto la faccia, mi ci gioco, capisco l'essenzialità del coraggio di dire «io», di mettere il proprio nome.
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