La verità rende liberi (anche davanti al sacerdote)

"Io ti assolvo!". La sfida tra la banalità del male e la serietà del bene. Ecco perché la verità rende liberi

La verità rende liberi (anche davanti al sacerdote)

Il non cedere nel riconoscere i propri sbagli crea sabbie mobili in cui ci si impantana, invece aveva ragione Gesù: «La verità fa liberi». È certamente difficile ammettere, ma il perdonare è ancora più faticoso perché la testa rimugina e le ferite hanno bisogno di tempo e di cure. Eppure, se ogni colpa è male e fa male, ogni perdono è bene.

Ucciso, non ho ucciso. Rubato, non ho rubato. Che peccati vuoi che abbia?! Va beh, sì, a parte le solite cose che fanno tutti», si dice comunemente.

Ad un tale che si vantava ad una cena con un po' di supponenza «Io ho la coscienza pulita!», un commensale ha apostrofato: «Trattasi di coscienza pulita in quanto ancora nel cellofan col cartellino, nuovissima, mai usata». Ho trattenuto a fatica l'applauso. Nel suo libro La banalità del male (1963), Hannah Arendt riflette: «La triste verità è che molto del male viene compiuto da persone che non si decidono mai ad essere buone o cattive».

Sulla scia della ricchezza del lasciarsi interpellare, su cui ho riflettuto domenica scorsa, vorrei condividere oggi la fortuna di incontrare la «serietà del bene» che comunque e nonostante tutto è molto di più, per quantità e qualità, della «banalità del male». Il titolo di questa rubrica non è «La confessione» perché, nel rispetto del pensiero di ogni lettore e della laicità del giornale, ritengo che riflessioni sacramentali, teologiche, catechetiche, ecclesiali siano proprie di altri ambiti e siano da affidare ai cammini di fede che ciascuno ritiene opportuno seguire. Non è nemmeno «Il confessore» perché quanto viene detto nel segreto a un prete è come consegnato nelle mani di Dio e quindi non mi permetterei mai di abusare della storia di alcuna persona rischiando di sminuirla, inquinarla, sciuparla o di sfiorare dettagli che possano identificare qualche situazione commettendo così non solo una violazione di regole ma un sacrilegio. «Il confessionale» è invece un luogo e uno strumento che assurge al ruolo di simbolo nel consegnare la possibilità di rileggere esperienze diverse perché sono convinto che custodisca alcune dimensioni concrete, moderne, efficaci che possano essere riconsiderate nella riflessione come scuola di umanesimo e palestra di rinascimento, al di là del credo di ciascuno.

Oggi prendo come spunto una parola alquanto risaputa che nasconde un significato sorprendente: «Io ti assolvo». Se la si osserva attentamente si nota che innesca una situazione paradossale. Una persona arriva e «si accusa»: ho commesso questo errore, ho agito male in quella situazione Si parte da un'ammissione di colpa e si conclude con una formula tipicamente da sentenza: «Perché sei pienamente colpevole, ti assolvo!». Ma come?! Assurdo! Ma non dovrei sentirmi giudicato e accusato? Come è possibile che succeda il contrario? Non si dice ragionevolmente: «Ti scagiono perché hai presentato alibi che dimostrano che il fatto non sussiste». Non si dice generosamente: «Ti giustifico visto che sono buono e accolgo le tue motivazioni!». Non si dice paternamente: «Ti scuso perché ti voglio bene, chiudo un occhio, facciamo finta di niente e che non succeda più!». No, no! «Ti assolvo perché sei colpevole!». È talmente illogico che si può dire solo per dono, anzi come iper-dono, infatti è il regalo più grande che si può offrire non essendoci alcun motivo. Un'ipotesi che a me piace fa derivare etimologicamente la parola «perdono» proprio da iper-dono. Non segue una logica, è solo per dono. È sovrumano? Sì! È l'umano nella sua massima realizzazione e espressione. E, dal mio punto di vista, è la traccia dello stile di Dio, che interpella non a cercare «altro» per condonare, ma a tuffarsi in un «oltre» infinito e totalmente gratis come è solamente l'amore.

Tante volte mi chiedo quante discussioni finirebbero subito se si ammettesse il proprio errore, senza se, senza ma, senza però. Quanti infiniti messaggini infuocati rimarrebbero nelle dita se si chiedesse scusa senza cercare tante scuse. Quante urla non irriterebbero le gole e si trasformerebbero

in baci se si dichiarasse con semplicità: «È colpa mia!». Quanti musi lunghi si scioglierebbero in sorrisi con un semplice: «Ho sbagliato io!». Così il perdono cancella la colpa, cicatrizza il passato, apre la possibilità di affrontare il presente e di creare un futuro. Senza questo punto a capo ci si avviluppa ombrosamente, si ingarbugliano situazioni, si stropicciano relazioni. Il non cedere nel riconoscere i propri sbagli crea sabbie mobili in cui ci si impantana, invece aveva ragione Gesù: «La verità fa liberi». È certamente difficile ammettere, ma il perdonare è ancora più faticoso perché la testa rimugina e le ferite hanno bisogno di tempo e di cure. Eppure, se ogni colpa è male e fa male, ogni perdono è bene e fa bene a chi lo riceve, ma anche e soprattutto a chi lo dà. È divinamente rigenerante e rivitalizzante. Questa è la sfida tra la banalità del male e la serietà del bene. Lascio la conclusione ancora alla saggezza ebraica di Hannah Arendt: «Quel che ora penso veramente è che il male non è mai radicale, ma soltanto estremo, e che non possegga profondità. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla superficie come un fungo.

Esso sfida il pensiero, perché il pensiero cerca di andare alle radici e nel momento in cui raggiunge la profondità cerca il male, ma non trova nulla. Questa è la banalità del male. Solo il bene è profondo e può essere radicale».

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