Abbiamo tutti un viaggio in sospeso con un amico. Chi in jeep in Marocco. Chi da Milano "a Bangkok via Copenaghen" su una Ferrari Testa Rossa (che non si batte). Chi oltre cortina destinazione Cracovia, con una valigia piena di penne a sfera e calze di nylon, nel sogno nostalgico di quell'Europa dell'est che ha sempre promesso ai nostri borghesi un po’ imbranati, le amanti a profusione di un mito da sfatare - almeno finché la cortina di ferro non è tornata di moda. L’appuntamento in quel caso, lo ricorderete, era davanti al "palo della morte" nella vigilia di ferragosto di una quarantina d’anni fa. Allora una Fiat Dino spider 2.4 nera con vistose saette rosse impresse sulla carrozzeria e le x fatte di nastro isolante nero sui fari per imitare le auto che gareggiano in pista (e in caso di urto e rottura del faro lo terrebbero su, ndr), spuntava nella periferia polverosa e postapocalittica di una Roma rovente e deserta. Una Roma che rimanda, nonostante tutto, a una nostalgia arida e inspiegabile.
Disegnata da Pininfarina, la Dino Spider è stata prodotta dal 1966 al 1972 e proposta come sportiva firmata Fiat capace incarnare lo spirito da Gran Turismo delle pari classe che forse non raggiunse mai davvero come fascino - se non grazie al mitismo ottenuto in seguito all’uscita pellicola di Carlo Verdone “Un sacco bello” nel 1980; ossia “tra otto anni mezzo secolo fa”, come celebra un meme in voga queste settimana. Tanto per ricordarci quanto siamo nostalgici o quanto siamo vecchi.
In verità la Dino era una figlia per interesse, non per amore; nata dall'accordo stretto tra FIAT e Ferrari quando quest’ultima non era ancora proprietà del gruppo Agnelli. La scuderia di Maranello aveva a produrre in tempi estremamente ridotti un numero essenziale di motori Dino per ottenere l'omologazione alla Formula 2 della Ferrari Dino 166 F2. Tale omologazione necessitava un determinato numero di auto stradali (500 unità, ndr) per essere convalidata: il sodalizio lo avrebbe consentito. L’auto avrebbe preso il nome - al pari della Ferrari con la quale condivideva solo il motore - di Alfredo “Dino” Ferrari, compianto primogenito del patron della Ferrari, che scomparso prematuramente, era impegnato nel progetto di sviluppo dei nuovi motori V6 di Maranello.
Ai piani alti del Lingotto mettere un motore Ferrari in una sportiva disegnata da Pinifarina e affidata alle cure della celebre carrozzeria Bertone parve un’idea geniale quanto proficua. Venne messa così in produzione una prima versione 2.0, della quale vennero prodotti 1.163 esemplari, e una seconda versione con cilindrata 2.4 prodotta solo in 420 esemplari. Quella che compare del film appartiene a queste ultime: una 2.4 spider con motore con basamento in ghisa - più pesante a vantaggio una maggiore resistenza ed affidabilità. Altra differenza da segnalare, a livello estetico, sono i cerchi a quattro bulloni in lega, meno apprezzati di quelli “serrati “con “gallettone” della prima versione. Lo scudetto Ferrari, che si può notare in alcune riprese, è evidentemente un vezzo del bullo trascinatore interpretato da Carlo Verdone, dato che nemmeno le Dino 206 e 246 prodotte dalla Ferrari sfoggiavano il cavallino rampante tramandato dall’asso dell’aviazione Francesco Baracca, ma un apposito scudetto con su scritto Dino.
Il film di Verdone, divenuto inno nostalgico anche per merito di un'altra Roma sparita - dopo quella dipinta da Roesler Franz - ha dato una certa notorietà alla gran turismo di casa FIAT, che ha saputo attrarre - grazie alle pose dell'arrapatissima macchietta messa in scena dal genio osservatore del regista - appassionati e autoamatori capaci di trasmetterle il giusto valore. Portando una "Ferrari da bar sport" alle attuali quotazioni: non sono inferiori ai 130mila euro, se parliamo di una spider, e approssimativamente la metà, se parliamo della versione coupé 2+2. Fece notizia, nel 2019, l'acquisto da parte di Carlo Verdone dell'esemplare di Dino Spider 2.4 che venne usato per le riprese.
Allora, il Palo della Morte che spiccava in una non più desolata Vigne Nuove non c'era più da un pezzo. E Roma, a ferragosto, non era più una città deserta del Sorpasso di Risi. Per viaggiare verso est, in cerca di fantomatiche donne più calde del loro clima poi, si prendeva l'aereo già da un decennio; era sufficiente prenotare con un po' d'anticipo uno dei low-cost con applauso all'atterraggio e bagaglio - senza penne Bic ma tante promesse - da stivare con sovrattassa. Così il mito dell'amore esotico si sfatava piano, ad ogni atterraggio, al passo incessante della globalizzazione. Solo i bulli come Enzo ci sono rimasti. Duri a morire.
Con le automobili truccate e adornate da pacchianerie varie. Con le "capezze" al collo e il batuffolo d'ovatta a sovrastimare il sesso compresso nel pantalone attillatissimo. E la nostalgia certo, quella che prima o poi, ci farà rimpiangere anche loro.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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