La cinese Xiaomi rinuncia a «Modena»

Il Dragone: «Rispetteremo le norme, non vogliamo confondere i consumatori». Pesano i dazi

La cinese Xiaomi rinuncia a «Modena»
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Il forte pressing del sindaco di Modena, Gian Carlo Muzzarelli, combinato con quello del ministro delle Imprese e Made in Italy, Adolfo Urso, ha funzionato: il colosso cinese Xiaomi, che a quello degli smartphone ha da poco unito il business delle auto elettriche, fa sapere di aver ritirato la denominazione «Modena» assegnata al suo primo modello, la coupé SU7.
Proprio il Giornale, nel giorno del via alla «Motor Valley Fest», che si è conclusa domenica, aveva colto lo sfogo del sindaco Muzzarelli, il quale si era detto «molto arrabbiato» per l’abbinamento del nome della sua città alla vettura di Xiaomi, sfruttando in quel modo la notorietà mondiale di quella che è riconosciuta come capitale della «Terra dei motori» emiliano-romagnola. Il nome «Modena» era stato svelato da Xiaomi, come chicca all’anteprima del suo modello, 100% made in China, del 28 dicembre scorso a Pechino. «L’azienda - si legge in una nota del ministero - ha assicurato che intende rispettare le norme italiane sulle indicazioni fallaci, compreso il regolamento sulle indicazioni geografiche. Non saranno così promosse campagne di comunicazione e di marketing che possano indurre i consumatori in errore. Il ministero delle Imprese e del Made in Italy, da parte sua, ha fatto presente all’azienda quale sia la normativa vigente a tutela dei consumatori e dei produttori nazionali».
Pace fatta, a quanto sembra, dopo la minaccia del sindaco modenese di passare tutta la pratica all’ufficio legale e l’intervento decisivo del ministro Urso. Ai cinesi, del resto, in questo periodo non conviene aprire contenziosi con i Paesi dell’Ue. Un braccio di ferro, come nel caso Xiaomi-Modena, si sarebbe rivelato un boomerang per Pechino. Troppi gli interessi in gioco: i possibili, seppur tardivi dazi su cui Bruxelles sta lavorando; gli investimenti produttivi cinesi in corso (Ungheria e Spagna) con l’Italia che si è ufficialmente candidata; per non parlare di timori e malumori sull’avanzata dei costruttori della Grande Muraglia con modelli, non solo elettrici, a prezzi competitivi.
A Torino, intanto, torna il Salone dell’auto. Si terrà in vari luoghi storici della città dal 13 al 15 settembre, evento che viene accolto a braccia aperte anche dalla giunta di centro-sinistra che governa il capoluogo. E questo a differenza della precedente amministrazione pentastellata guidata da Chiara Appendino che aveva costretto l’organizzatore, Andrea Levy, a spostare la rassegna espositiva «Parco Valentino» a Milano e Monza. Le auto in mostra al Valentino non erano gradite, fino a costringere Levy a trasferire l’evento, sotto il nome di «MiMo», tra Milano e l’Autodromo di Monza, scatenando contro il Comune l’ira di ristoratori e albergatori torinesi. Alla conferenza stampa di ieri, presente anche il vicepremier Matteo Salvini, con le autorità locali e il patron Levy, non è sfuggita l’assenza di un rappresentante di Stellantis, al cui interno si trovano i marchi locali Fiat, Abarth e Lancia.

Impegni pregressi? Imbarazzo? Mirafiori, fabbrica simbolo, da 1 milione di auto prodotte nel ’66, primo anno da presidente per Gianni Agnelli, è via via scesa alle 86mila del 2023 (record negativo nel 2019 con 19mila unità). L’attuale stop e la mancanza di un piano modelli dai volumi elevati non fanno altro che far crescere allarme e paure. Meglio il silenzio.

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