Il Premio Strega ha confermato la tendenza della letteratura attuale a preferire i memoir ai romanzi. Si scrive di se stessi, del proprio padre, madre, figli, famiglia con un'adesione totale all'autobiografia. E allora vale la pena sperimentare un'altra modalità di scrittura, per esempio quella offerta da un romanzo stranissimo, La nave morta di B. Traven che, quando uscì in Germania nel 1926, divenne subito un successo internazionale, come confermò la sua versione - una vera e propria riscrittura - in inglese nel 1934. Ora il romanzo viene riproposto dalla casa editrice WoM: il testo è tradotto dall'inglese confrontato con l'originale tedesco da Matteo Pinna.
Su B. Traven, l'autore misterioso, ci sono varie congetture, ma nessuna è stata confermata. L'anonimato fa parte della sua strategia letteraria, infatti in una nota editoriale affermava: «La biografia di una persona creativa è del tutto irrilevante. Se un uomo non può essere riconosciuto nelle proprie opere, allora o l'uomo non vale una cicca o sono le sue opere a non valer nulla. Pertanto, la persona creativa non dovrebbe avere altra biografia al di fuori delle proprie opere, in esse egli espone alla critica la propria personalità e la propria vita». E con straordinaria coerenza B. (forse Bruno) Traven riuscì a mantenere il completo anonimato. Viene in mente Elena Ferrante o Flaubert quando affermava «Madame Bovary, c'est moi». Anche la data di pubblicazione è importante: 1926 è l'anno di pubblicazione del Castello di Kafka a cura di Max Brod. Kafka era morto nel 1924, incaricando l'amico di bruciare le sue carte. Brod se ne vide bene e trascorse tutta la vita a curare la pubblicazione dell'opera dell'amico. Non è soltanto la data ad avvicinare i due romanzi. Essi, infatti, rappresentano due eccezionali denunce del potere nella sua forma contemporanea: la burocrazia.
Il protagonista di La nave morta ha infatti smarrito i suoi documenti, nella fattispecie il «libretto di navigazione» e così ha smarrito la sua identità ed è costretto a imbarcarsi su una carretta del mare, la Yorikke, destinata dagli armatori ad affondare per riscuotere il premio d'assicurazione. L'equipaggio è racimolato tra queste non-persone, gente senza identità, senza documenti, derelitti antesignani dei sans-papiers dei nostri tempi. L'autore è sostenuto da una concezione anarchica, ancora attuale: «Il burocrate coi suoi registri e moduli determina il corso delle cose, chi non è in grado di registrarsi non ha diritto di vivere... I dipendenti pubblici e i burocrati sono una confraternita segreta internazionale che si è imposta di rovinare la vita delle persone». Appunto come Il processo e Il castello kafkiani, anche La nave morta accusa l'amministrazione che, dappertutto uguale, risponde a pratiche spietate di dominio tese a stritolare l'uomo, anticipando di dieci anni Tempi moderni di Chaplin.
Anche il protagonista del romanzo cade quasi per caso negli ingranaggi del sistema. Ma il fascino del romanzo è anche costituito dalla capacità epica del racconto, dalla suggestiva evocazione del viaggio per mare culminato nel naufragio e nella scomparsa tra le onde dell'oceano dell'amico del protagonista, il marinaio americano Gerard Gale. Queste descrizioni, così intense, spiegano l'enorme fortuna del romanzo, che partecipa - come i racconti e i romanzi di Döblin - della Neue Sachlichkeit, del neorealismo tedesco, successivo all'espressionismo, con i suoi deliri soggettivistici, talvolta sublimi.
Ma accanto alla Nave morta c'è un romanzo ancora più avvincente, quello dell'identità dell'autore. A perseguire le numerose piste ci si smarrisce in un labirinto. Sicuramente l'autore (o l'autrice?) era un anarchico, imbevuto più di Max Stirner e Jack London che di Nietzsche. Si sa solo che emigrò in Messico. L'indirizzo postale del suo copyright era: «B. Traven, Tamaulipas, Mexico», cui scrivevano i suoi editori e agenti, che non lo incontrarono mai. Nel 1927 uscì un altro suo romanzo, Il tesoro della Sierra Madre che, trasformato in un film, ottenne l'Oscar nel 1948 per la stupenda recitazione di Humphrey Bogart.
Prendiamo in parola l'autore/autrice: è l'opera che conta e l'opera si conferma un grande racconto di mare e di male, anche se alla fine - a sorpresa - il compagno affogato del protagonista viene accolto dal «Grande Capitano» con l'epitaffio - tutto in caratteri maiuscoli - che chiude il romanzo: «Colui che varca questa soglia sarà per sempre libero da ogni dolore». Forse l'ultima allucinazione, l'estremo miraggio di Gerard Gale, l'unico sopravvissuto al naufragio.
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