Se è vero che la letteratura è imparentata con l'alchimia, non con la chimica dei corsi di creative writing, l'ultimo romanzo di Andrea Bajani, Il libro delle case (Feltrinelli), dovrebbe essere preso ad esempio dagli scrittori tentati di imboccare la prima scorciatoia disponibile, sia essa il giallo o l'ennesima, stiracchiata autofiction. Partendo dall'assunto che passiamo la maggior parte della vita al calduccio e sotto un tetto, non sulla strada o in un parco, Bajani ci ha dato un libro autobiografico che ha la particolarità di dislocare il personaggio romanzesco, questo coriaceo e inestinguibile dinosauro, sulle pareti più o meno domestiche lungo le quali egli si muove. Solo lì è possibile rintracciarlo e spiarne i gesti.
Le case cui allude il titolo sono innumerevoli: c'è la «Casa del sottosuolo», un seminterrato all'ombra del Gianicolo: poche stanze che ogni giorno, a mezzodì, tremano per il famoso cannone che spara a salve. C'è la «Casa del radiatore» (una stufa a cherosene), l'appartamento torinese in affitto dal quale ogni martedì bisogna smammare «per consentire al proprietario la sua sodomia settimanale». Ci sono la «Casa del sesso» e quella «dell'adulterio» e anche la «Casa delle parole» dove inizia a scrivere, sospettata dalla consorte di essere una lubrica garçonnière. Né mancano alcune case eccentriche o metaforiche: il covo in cui è rinchiuso Aldo Moro, l'automobile dove si svolgono le prove tecniche di convivenza con una donna che avuto una bambina da un altro uomo, persino la «Casa di Tartaruga», il carapace che ospita l'animale al centro della prima infanzia del protagonista, del quale a questo punto sarà il caso di dire qualcosa. Bajani si rivolge a lui, il lui che probabilmente egli è, chiamandolo Io. In altre parole, se per Nerval e Rimbaud io è un altro, per Bajani l'altro è Io. «In quell'oscurità Io compie i suoi primi movimenti». «Io impara a muoversi fra quelle ombre» e così via. Stavolta l'io non è un'anima, né un soggetto: è un oggetto che abita l'esteriorità, parla in terza persona e appartiene alla stessa sfera delle altre figure maiuscolate che popolano il romanzo: Donna con la fede, Bambina, Prigioniero. È facile prevedere il ginepraio di discussioni che susciterà questo stratagemma: siamo abituati a dire «Io parlo», non «Io parla». «Io parla» è un errore di grammatica. Sembra anche un capovolgimento, forse una parodia, del «voi siete nel mondo, ma non siete del mondo» del vangelo di Giovanni: l'Io di Bajani, infatti, è «tutto mondo». I filosofi, loro obietteranno che l'io non fa parte del mondo perché è il suo limite. «Qui è come occhio e campo visivo: ma l'occhio, nel campo visivo, tu non lo vedi» assicura Wittgenstein nel Tractatus. E il critico letterario? Dirà che Bajani riattiva il nouveau roman, un modo di raccontare che negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso provò a ricondurre l'esistenza allo sguardo, alla percezione. Osservazioni legittime, che però rischiano di mancare l'essenziale. Bajani riattiva la scuola dello sguardo?
Non solo lo fa: di quella scuola Il libro delle case rappresenta un innegabile, quantunque tardivo, capolavoro. Aggiungerei che quei romanzi francesi erano di solito narrativamente inefficaci, l'anticamera dello sbadiglio, mentre Il libro delle case di efficacia e presa sul lettore ne ha da vendere.
E non solo di efficacia affabulatoria: per un paradosso che solo un grande scrittore poteva innescare, raramente si era stati tanto vicini al segreto della soggettività quanto in queste pagine. Proiettata sulle mura delle case del romanzo, l'essenza dell'interiorità umana brilla come mai aveva fatto nei comuni romanzi in prima persona che intasano le librerie.
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