Le baraccopoli? Tutte ancora in piedi

Le baraccopoli? Tutte ancora in piedi

La baracca è proprio lì, appoggiata sulle rive del Tevere al cartello che avverte «pericolo di esondazioni». E di onde anomale che la diga di Castel Giubileo può sputare in qualsiasi momento. Su questa palafitta, altre decine, centinaia di tuguri che questo nuovo Medioevo ha fatto scivolare lungo il fiume. Ma sulla pista ciclabile di Tor di Quinto c’è una novità. Dopo gli articoli di giornale che hanno denunciato la beffa dei falsi sgomberi, dopo la chiusura per motivi di sicurezza e la riapertura - tutto in 24 ore - della pista.
Strani ciclisti. Che poi ciclisti non sono, perché girano su Fiat Punto con il lampeggiante blu. Vigili urbani. Che state facendo? «Rifacciamo la mappatura delle baracche». Nel senso che già conoscevate l’ubicazione di ogni rifugio? Fanno un gesto con la mano, come per dire certo: «Teniamo aggiornata la mappa: quelle che sono vuote, quelle abitate. Il problema sarà poi portar via tutto il materiale...».
In questa «ri-mappatura» delle bidonville c’è tutto il senso di questi mesi e delle tragedie che non si sono volute evitare. In un Paese normale la «ri-mappatura» avrebbe indotto il sindaco alle dimissioni. Veltroni non ha applicato il primo decreto legge, quello di febbraio, per le espulsioni. Al primo articolo dava addirittura la possibilità di vietare l’ingresso in Italia ad alcuni soggetti. Uno strumento limitato, certo, ma sempre meglio che niente. Quando è diventata evidente la cosiddetta «emergenza romena» e l’ondata di sbandati in arrivo dall’Est? Almeno da aprile quando, giustamente, l’opposizione, e in particolare An e Gianni Alemanno, aveva dato l’allarme. Ma dal Campidoglio non è stato dato l’input politico per intervenire. Anzi ai vigili hanno legato le mani. Eppure l’Unità di crisi della polizia municipale ha dimostrato grande capacità e competenza, anche se devono agire a mani nude: perché a Roma i vigili non possono portare la pistola.
Ma proseguiamo nel tour nelle favelas di Tor di Quinto, dentro Parco Desolazione. A Grottarossa hanno abitato anche i piloni. Materassi, tende, giacigli, sono accatastati sotto le rampe dei raccordi. Sotto il viadotto che attraversa via Flaminia invece hanno fatto un piccolo villaggio. Un insieme di capanne ma con la corte, un ampio cortile, davanti, transennata da un’incannucciata. Una signora con il cagnolino al guinzaglio che abita nella zona di Castel Giubileo, a pochi metri dal Gra, riassume in poche parole: «Non viviamo più». «Dopo avergli dato coperte, vestiti e tutto quello che potevamo - racconta - una mattina mi sono svegliata e ho trovato un buco nella rete»: s’erano rubati le bombole del gas che tengo di riserva in garage».
Il culmine si è raggiunto quest’estate. La fermata del bus era diventata terra «loro»: qui si davano appuntamento, urla fino a tarda notte, si ubriacavano, si prendevano a bottigliate. E adesso? «Adesso va meglio. Ce ne sono di meno, tanti sono andati via». In fondo bastava poco. Non servivano interventi eccezionali. Sarebbe bastato far sentire un po’ la pressione, che uno Stato c’è.

Forse sarebbe bastato per evitare che una ragazza ventenne morisse con un ombrello infilzato in un occhio, che a un dirigente d’ospedale fosse sfondato il cranio per un i-pod, un motociclista fosse ucciso e la sua famiglia distrutta da un rom strafatto di coca, che Giovanna Reggiani trovasse il suo martirio su quei cento metri di strada buia dentro Tor di Quinto.

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