Parlare di sport americani senza nominare le figure dei coach-santoni che hanno fatto la differenza negli anni sarebbe impossibile. La storia di molti sport a stelle e strisce può essere ripercorsa passando senza soluzione di continuità da uno all’altro allenatore iconico, i cui schemi hanno cambiato il gioco. Alcune di queste figure trascendono lo sport, tanto che ogni americano usa ogni giorno espressioni rese popolari da Vince Lombardi o da qualche altro mito dello sport, in maniera naturale, magari senza saperlo. E poi c’è Pop, una figura talmente diversa e particolare da sfuggire ad ogni tentativo di ricondurlo a figure più familiari. Nel corso degli ultimi 50 anni, il tecnico che ha creato una delle dynasties più strane, quella dei San Antonio Spurs, si è guadagnato il rispetto ed ammirazione di colleghi e giocatori. Dopo che ha firmato l’ennesimo contratto milionario, che lo porterà ad allenare nella città del Texas alle soglie degli ottant’anni, “Solo in America” vi porta a casa Popovich per cercare di capire cosa renda questo tecnico così speciale. Tenetevi forte, ci sarà da divertirsi.
Fino a 80 anni, a modo suo
Per capire che Gregg Popovich non sia un allenatore come tanti basta dare un’occhiata al nuovo contratto che ha appena firmato con la franchigia che ha reso grande. Nonostante abbia già 74 anni, il front office degli Spurs è stato costretto a sborsare una cifra da record per tenerlo in panchina per altre cinque stagioni: più di 80 milioni di dollari, cosa che lo rende il tecnico più pagato della NBA. Ovvio, Pop si è guadagnato questa fiducia guidando la squadra per ben 27 anni, roba da far invidia a Sir Alex Ferguson. Basta guardare in alto, nell’AT&T Center, per vedere uno accanto all’altro i cinque banner che celebrano i cinque titoli vinti nell’era d’oro degli Spurs, quando dominavano il basket. Eppure, a guardare come stanno andando le cose a San Antonio, tanta generosità è una stranezza. La stagione chiusa in maniera certo non esaltante è stata forse la peggiore da 30 anni, tanto da garantire agli Spurs la prima scelta del draft, una roba che ai tempi di Robinson, Duncan e Ginobili sarebbe sembrata assurda. La ragione di questa scelta è proprio legata al draft, al fatto che nel South Texas, proprio vicino al controverso confine-colabrodo con il Messico, è appena arrivato quello che molti definiscono un talento che si vede una volta ogni generazione.
Per evitare che faccia la fine di uno Zion Williamson, un attimo appannato in quel di New Orleans, gli Spurs vogliono affidare il fantasmagorico Victor Wembanyama all’allenatore più grande di sempre. Solo Pop potrà plasmare il giovane francese in un campione tale da riportare al vertice San Antonio dopo una serie di stagioni disgraziate. In fondo, l’ha già fatto tante altre volte, consegnando al mondo del basket talenti unici a profusione. La notizia è stata salutata con entusiasmo dal mondo della NBA, che vuole un gran bene al suo Pop, tessendone le lodi come maestro vero, motivatore straordinario e finissimo psicologo. Meno contenti sono stati, invece, i tifosi conservatori, che hanno storto il naso spesso e volentieri di fronte alle uscite woke del tecnico degli Spurs. Ogni tanto, quando le cose non girano, Popovich si lancia in uscite molto politiche che fanno imbufalire la destra.
Ad aprile, ad esempio, aveva passato dieci minuti in conferenza stampa scagliandosi contro il Secondo Emendamento, quello che garantisce il diritto di ogni cittadino americano di portare armi da fuoco, definendolo un “mito”. Altre volte aveva definito Cristoforo Colombo un “assassino”, l’America un paese razzista, Colin Kaepernick, l’ex quarterback dei 49ers che si era inginocchiato al momento dell’inno un “vero patriota” e chi più ne ha più ne metta. Eppure, nonostante tutto, Pop rimane unico, inimitabile, ammirato ed invidiato da tutto il mondo del basket. Piaccia o non piaccia, l’NBA senza Popovich sarebbe molto diversa.
L’uomo dietro le vittorie
Qualche tempo fa, quando Pop passò la mano, consegnando Team USA ad uno dei suoi allievi più di successo, l’ex stella dei Nets e dei Mavericks Jason Kidd, ESPN dedicò un interessante reportage alla vita e alla carriera del tecnico di San Antonio, raccontando alcune delle mille storie che circondano questo personaggio quasi mitologico. Quelle più belle, ovviamente, vengono dai giocatori che hanno condiviso con Pop tanti momenti belli e brutti. Pochi conoscono Pop meglio di una delle star più inspiegabili della NBA, un talento argentino che ha cambiato il mondo della lega più prestigiosa al mondo. Manu Ginobili ha passato quasi 20 anni alla corte di Popovich, parlando di tutto, dalla politica alle guerre alle cose più semplici ma ricorda con particolare affetto le famose “cene di squadra”. Il play argentino ricorda come si trovassero a Miami, al ristorante Il Gabbiano, vista la passione di Pop per la cucina italiana. L’occasione non era delle migliori: poche ore prima, in quel 18 giugno 2013, Ray Allen aveva messo una tripla a fin di sirena togliendo dalle mani degli Spurs l’ennesimo titolo NBA. Non lo sapevano ancora, ma i Miami Heat dei Big Three si sarebbero portati a casa anche gara 7 e l’anello ma l’atmosfera nello spogliatoio era davvero plumbea.
Sono passati dieci anni ma Ginobili ha ancora problemi a perdonarsi quel rimbalzo perso su Chris Bosh, quello che costò la fatale tripla: “Avevamo quasi vinto il titolo, eravamo a pezzi ma Popovich non fece una piega: ‘Si vince insieme, si perde insieme. Andiamo a mangiare’. Ci fece bene”. A sentire chi lo conosce bene, Pop la differenza la fa proprio in queste occasioni, quando c’è da tirare le fila dopo una sconfitta dolorosa, quando serve essere un amico, porre tutto in prospettiva. “Parlammo a lungo, piangendo insieme. Passava da un tavolo all’altro, cercando di tirarci su il morale”. Sembra semplice ma avere a che fare con i talenti della NBA e le loro mille stranezze non è roba affatto semplice. Popovich è sempre riuscito a rimanere al passo coi tempi, adattarsi alle sfide della lega ma dove si è rivelato inimitabile è nell’abilità di coltivare relazioni umane con i suoi giocatori. Ginobili ricorda come “una delle frasi che gli ho sentito dire più volte è ‘se questa è la cosa più brutta che ti è successa nella vita, sei stato dannatamente fortunato”. L’anno dopo quella triste cena a Miami, gli Spurs travolsero gli Heat 4-1 portandosi a casa il quinto titolo NBA. Ginobili, che ha passato 16 stagioni a San Antonio, considera Popovich uno dei più grandi di sempre: “è molto esigente, ti chiede il massimo ma quello che lo differenzia dagli altri è che il giorno dopo, quando pensi sia ancora arrabbiato, deluso dopo un errore, ti ritrovi seduto con lui, bevendo un bicchiere di vino, come se niente fosse”.
Si lavora sempre, anche a Natale
Se Manu ricorda il lato più umano di Popovich, il suo sodale di tante vittorie Tony Parker la vede in maniera un po’ diversa. Arrivato a 19 anni dalla Francia, proprio come Victor Wembanyama, ha passato 17 stagioni agli Spurs, guadagnandosi quattro anelli ed il titolo di MVP delle Finals 2007 ma, per lui, la differenza è nella micidiale work ethic del tecnico, quella che lo fa lavorare sempre, anche a Natale. “La mia storia su Pop? Eravamo a Natale, ci aveva invitato alla cena di squadra di Natale, giurando e spergiurando che non avremmo parlato di basket. Dopo un po’, invece, mi ritrovai con lui nel suo ufficio, esaminando filmati per la prossima partita. Lui è fatto così, non smette mai di lavorare”. I giornalisti che hanno seguito gli Spurs per anni non hanno dubbi: a rendere Pop inimitabile è la sua voglia spasmodica di vincere, la sua determinazione a fare di più e meglio dei rivali.
David Robinson, uno dei pivot più grandi di sempre, ha giocato 14 stagioni a San Antonio, ma preferisce ricordare un aspetto diverso del carattere di Pop: il fatto che sia in grado di gestire senza problemi ogni tipo di personalità. The Admiral ricorda come “una delle cose più divertenti per me è come Pop gestisce ogni tipo di giocatore nello spogliatoio. Una volta eravamo insieme, guardando i filmati della partita e Mario Elie, nel video, stava mettendo tiracci uno dietro l’altro. Pop lo prende e gli fa ‘Dai, Mario, era davvero un tiro da farsi?’. Mario, che era un tipo particolare, rispose quasi prendendolo in giro: ‘Che ti devo dire, Pop? Dovevo ancora scaldarmi”. Pop si mise a ridere di cuore. Certi giocatori li tratta così, sa sempre quando è il momento di spingerti a fare meglio, pungerti sull’orgoglio o quando è il momento di lasciarti perdere. Nel corso degli anni è sempre stato in grado di incoraggiare i giocatori, di fargli sentire che è sempre dalla loro parte. Non è una cosa normale nella NBA, per questo è speciale”.
La differenza? Pop ci tiene
A parte il rapporto coi giocatori, Popovich ha saputo sempre creare rapporti unici anche coi suoi assistenti, cosa niente affatto comune nel competitivo mondo della NBA. Mike Brown, che ora è passato ai Golden State Warriors, ricorda come Pop abbia sempre trovato il modo di essere vicino a tutti, con atti di generosità inaspettati. “Non lo dimenticherò mai: avevamo un allenatore di pesistica a fare uno stage e non stava guadagnando molto. Una volta finito, aveva trovato un lavoro in un centro per giovani difficili in Colorado ma non sapeva come trasferirsi, visto che aveva finito i risparmi. Lo scoprimmo qualche tempo dopo ma, senza dire niente a nessuno, Pop gli regalò una macchina nuova, una Nissan Pathfinder, per dargli una mano a ripartire da zero ed aiutare tanti giovani a cambiare vita”.
Altre volte, invece, Popovich interveniva in maniera diretta, anche brusca, per darti una mano. Brown ricorda come, mentre stava divorziando, si trovò in una situazione spinosa: “i miei figli vivevano in Colorado con la madre ed erano rimasti con me per una settimana. Visto che stavamo per andare in trasferta, li portai all’aeroporto per tornare dalla mamma e si misero a piangere. L’aereo della squadra stava per partire, non sapevo cosa fare. Chiamai Pop e gli dissi che sarei arrivato tra qualche minuto, tempo di calmare i bambini e ci sarei stato. La sua risposta: ‘Mikey, devi rimanere con loro’. Provai a protestare e Pop mi disse ‘se ti vedo sull’aereo, sei licenziato’ e buttò giù il telefono. Rimasi coi miei figli per altri tre giorni. Sapeva quanto fosse importante per me recuperare il rapporto con loro. È fatto così”.
Ridere sempre e comunque
Un segno della grandezza di Popovich è il fatto che parecchi dei suoi assistenti hanno fatto grandi cose dopo aver lasciato San Antonio. Dopo 17 stagioni agli Spurs, Mike Budenholzer ha fatto discretamente agli Hawks per poi vincere il titolo coi Milwaukee Bucks di Giannis Antetokoumpo. A sentire lui, uno dei segreti di Pop è che, quando guarda i vari giocatori, è sempre attento ad una cosa: se hanno il senso dell’umorismo. “Direi che la cosa più importante quando stavamo osservando i vari giocatori è il senso dell’umorismo: se non sono in grado di ridere, difficile che sarebbero rimasti a San Antonio a lungo. Bisogna essere in grado di prendersi poco sul serio, bisogna per forza avere un buon senso dell’umorismo. Gli piace avere attorno gente del genere, intelligente ma in grado di ridere di tutto, anche di sé stessi. Se si prendono troppo sul serio e non sono in grado di fare come fa lui, è un problema. Tim Duncan, Manu Ginobili erano fatti così e per questo hanno fatto così bene agli Spurs. Ci fa davvero attenzione: se non sai ridere, non fai per lui”.
Un altro talento dell’albero di Popovich, Taylor Jenkins, si è fatto tutta la gavetta con gli Spurs per poi seguire Budenholzer ad Atlanta. Ora è il tecnico dei Memphis Grizzlies ma ricorda come Pop fosse sempre in grado di mettere da parte le preoccupazioni, trovando il tempo di fare squadra anche nei momenti più complicati. Nel 2011, dopo aver perso al primo turno dei playoff contro Memphis, partendo da super-favoriti, Popovich decise di invitare tutti, giocatori ed allenatori, ad una festa di fine stagione a casa sua. Jenkins, all’epoca, allenava gli Austin Toros, la squadra della D-League, la lega di sviluppo legata alle franchigie NBA e ricorda questa occasione con affetto. “C’erano tutti, i giocatori, gli allenatori, le famiglie, i bambini, fu una grande festa, un modo per ricordare a tutti che la vita va avanti anche dopo le sconfitte. In fondo era stata una buona stagione, avevano fatto bene, finendo primi nella regular season. Stare lì a recriminare per un paio di partite storte non serviva a niente”. A sentire lui, la differenza Pop la fa nei momenti difficili più che nelle vittorie: “In quel momento, quando tutti li davano favoriti per il titolo, vederlo lì con un sorriso smagliante, parlando con tutti in cucina, giocando coi bambini in piscina fu un momento davvero speciale. Ci fece capire che eravamo tutti nella stessa barca, anche noi della D-League”.
Il più grande di sempre?
Anche se la cosa fa andare in bestia i suoi detrattori, molti nella NBA considerano Popovich il tecnico più grande di tutti i tempi. Le statistiche raccontano una storia molto lineare: in quanto a vittorie in panchina, nessuno ha fatto meglio di lui, nemmeno il mitico Don Nelson, le cui 1335 vttorie sembravano irraggiungibili. Il classe 1949 dell’Indiana ha fatto ancora meglio, 1366 in 2127 partite, quasi 400 meno del grande coach di Bucks e Warriors. Altri tecnici memorabili, da Pat Riley a Phil Jackson allo stesso Doc Rivers, sono molto lontani da questo punto di vista. P.J. Carlesimo, che con Pop ha lavorato a lungo, pensa che per capire cosa lo renda davvero il più grande bisogna andare oltre alle statistiche. “Cosa lo rende unico è la capacità di legare coi giocatori dentro e fuori al campo. Passa molto più tempo di altri allenatori curando i rapporti umani, mostrando come tenga davvero a loro e alle loro famiglie. I giocatori lo capiscono e danno tutto in campo per lui. Ne approfitta, visto che a volte può essere davvero esigente ma è sempre positivo. I talenti vogliono giocare per lui perché sanno che sarà sempre dalla loro parte”.
Alle volte sono i dettagli a fare la differenza, anche nelle occasioni più banali. “Il cibo fa parte di cosa lo renda unico. Dice sempre che se hai gente con te, la cosa migliore è portarli a cena fuori. Ha una regola: se è in un ristorante con un giocatore o con un assistente, il conto lo paga lui. E non usa una carta di credito della squadra, insiste nel pagare coi suoi soldi”. Carlesimo, quando gli si chiede se Pop sia davvero il GOAT, il Greatest of all Times, non ha dubbi: “Per me è il migliore di sempre perché è stato in grado di adattare il suo gioco in diverse ere del basket, con giocatori molto diversi. Altri grandissimi tecnici non ci sono riusciti, erano bravissimi a giocare in una certa maniera ma non riuscivano ad evolversi, ad adattarsi se non avevano i giocatori giusti per i propri schemi. Pop è diverso: usa al meglio ed aggiusta il suo gioco a seconda dei giocatori che ha. La capacità che ha sempre di reinventarsi è davvero incredibile”.
Che dire? Tanti auguri,
Pop. Magari non cento, ma qualche grande stagione ce la puoi ancora donare. Se poi riuscissi a trasformare quello spilungone francese in un campione vero, il mondo del basket te ne sarebbe grato in eterno.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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