Che il male sia il propellente della letteratura è verità talmente ovvia da rivelarsi una mistificazione. Troppo facile accodarsi alla scia dei malvagi per tenere il lettore al guinzaglio, alla mercè dell'abisso. Nella classifica di Harold Bloom, tra i villain della letteratura occidentale primeggiano in bassezza gli shakespeariani Iago e Edmund, in superbia il Satana di Milton e per vigore di crudeltà il Giudice Holden, albino tiranno di Meridiano di sangue, il capolavoro di Cormac McCarthy. Da parte sua, Dostoevskij può vantare due straordinari cattivi: Nikolaj Stavrogin, il controprotagonista de I demoni, e Ivan Karamazov, il più subdolo - e intelligente - dei fratelli.
Eppure, per Dostoevskij la letteratura è animata dal bene e la sfida dello scrittore autentico, quello che azzarda tutto se stesso nell'opera, è la costruzione di «un uomo positivamente bello», come scrisse, nel gennaio del 1868, alla nipote Sof'ja Ivanovna. Il bene è l'elemento che spiazza, che prende alla sprovvista: in un mondo dominato dalla scaltrezza, quando non dalla violenza, un uomo buono è preso per un cretino, per idiota. L'ingenuità è stigmatizzata; l'innocenza perseguitata. Cercando un modello per il principe Mykin, Dostoevskij setaccia il cantiere letterario: Don Chisciotte è il suo paradigma, ma egli «è bello perché al tempo stesso è anche ridicolo»; il Pickwick di Dickens è «infinitamente più debole» dell'hidalgo di Cervantes; Jean Valjean, l'eroe di Hugo, «suscita simpatia» soltanto «per via della terribile disgrazia». Vincendo ogni reticenza, così, Dostoevskij fa di Mykin un Cristo contemporaneo: un uomo integrale, disintegrato dai tempi. Un Cristo che porta la croce dell'epilessia, privo di discepoli, avulso dalla verità. Un Cristo senza Padre.
Romanzo-mondo, romanzo-vita, una rivelazione, L'idiota contiene almeno una decina di romanzi, un saggio contro la pena di morte, un commento all'Apocalisse, un trattatello di storia dell'arte e uno sull'arte di amare e quella di morire. Rileggerlo la centesima volta permette di addentare i dettagli. Scelgo, tra questi, a mo' di esempio, la figura di Marie. Ventenne, tisica, «debole e magrolina», se ne infatua, per compassione, il principe: è l'emblema della «sudicia, vestita di stracci» che si prodiga per tutti ed è da tutti disprezzata, «come fosse una bestia immonda». L'immagine, in santo sentore, pare tratta dalla Historia lausiaca di Palladio di Galazia, nelle pagine in cui si racconta di una donna, pronta alle più abiette opere, seviziata dalle monache presso cui era a servizio. È a lei, tuttavia, che va la predilezione di Dio, a discapito delle altre, pur ligie alla liturgia. Farsi stolti per amore di Cristo, dice San Paolo: postura che fa ribollire il cuore, molto russa.
L'idiota, uno dei rarissimi libri per capire come si vive, per vivere in grazia, è tornano, edito da Neri Pozza, nella nuova traduzione di Serena Prina (pagg. 874, euro 25). Dopo decine di versioni italiane, finalmente questa, impeccabile; alla Prina - già traduttrice di Bulgakov, Gogol', Pasternak, Tolstoj e tutto Dostoevskij - abbiamo chiesto di introdurci nel corpo mistico e martoriato di Mykin.
Parto da un apparente paradosso. Il romanzo dove appare - citata e cifrata - la fatidica frase «la bellezza salverà il mondo» è, invece, il romanzo, lo scrive lei, che dimostra che «la bellezza non salverà il mondo». Mi spieghi.
«L'idiota rappresenta l'esperimento di Dostoevskij, il tentativo di creare un prekrasnyj celovek, un uomo bellissimo, dove l'aggettivo è stato reso in vari modi dalla critica, vuoi con buono, vuoi con splendido, con sublime o eccellente. Nella mia traduzione ho scelto di usare il più possibile, e nei limiti del possibile, i termini bello, bellissimo e occasionalmente magnifico, in modo che il lettore potesse riscontrare l'infittirsi della presenza di questi aggettivi, usati tutti per rendere l'originario prekrasnyj, in alcuni punti chiave del testo. Quest'uomo bellissimo si propone come una sorta di simbolo vivente capace di evocare la figura di Cristo, l'unica figura incommensurabilmente bella secondo Dostoevskij, che tuttavia quasi non è nominata nel romanzo, pur pervadendolo».
Viene da dire: il principe Mykin, meschino più che «idiota», è terribilmente inetto...
«Sì, Mykin è inetto, necessariamente inetto, perché, come gli altri due protagonisti del tragico triangolo del romanzo (Nastas'ja Filippovna e Rogoin), non conosce la grammatica e le regole di un mondo in cui si muove a tentoni, in cui è profondamente straniero. All'inizio del romanzo Mykin torna in patria da un altrove vagamente misterioso, con una totale ignoranza della propria terra. Anche Rogoin torna a Pietroburgo da un altrove non meglio definito, e nella città si aggira con fatica, di soppiatto, come un ladro spaventato, occhi tra la folla. E Nastas'ja Filippovna, anni prima, era arrivata anche lei nella capitale da uno sperduto villaggio della steppa, del tutto inattesa, indesiderata, minacciosa. Il destino di questi tre diversi troverà una sua soluzione nel proprio annientamento (attraverso la morte, la deportazione, la malattia)».
Pare che l'impazzimento sia condizione vertiginosa dello scrivere: le lettere che preparano L'idiota mostrano un Dostoevskij ai limiti della follia. È così?
«La vita di Dostoevskij non fu, come è risaputo, facile: dopo un esordio trionfale con Povera gente, ci fu un periodo di incertezza creativa concluso dall'arresto e dalla condanna alla deportazione e al confino, per un totale di dieci anni, seguito dal faticoso impegno per riconquistare un posto di primo piano nel panorama letterario russo. Nel caso dell'Idiota, composto interamente all'estero, bisogna aggiungere la lontananza dalla viva lingua russa e il grande dolore causato dalla morte della prima figlia, Sonja, a soli tre mesi. Ma questo parossismo creativo fu vero per tutti i grandi romanzi, incluso I fratelli Karamazov, per cui non ci fu la pressione ossessiva degli editori, ma la consapevolezza del tempo della vita che s'andava esaurendo».
Piccola nota. L'editoria italiana sembra indifferente alla presentazione dei materiali preparatori di opere fondamentali per la nostra cultura quali quelle di Dostoevskij. Il lettore francese dal 1950 ha la possibilità di accedere ai taccuini dostoevskiani, inclusi integralmente nei vari volumi che La Pléiade ha dedicato a Dostoevskij (e si pensi che nei Meridiani Mondadori, che aspirano a essere La Pléiade italiana, non è presente nessuna opera di Dostoevskij), e può quindi farsi davvero un'idea del travaglio che ha accompagnato la stesura di tutti i grandi romanzi. In Italia Ettore Lo Gatto, il più importante slavista del XX secolo, cercò di fare la stessa cosa, ma la sua edizione dei taccuini (Sansoni) fu fin da subito difficile da reperire, e oggi in pratica non esiste nemmeno nelle biblioteche.
Lei identifica in Mykin lo jurodivyj, il «folle in Cristo». Alla stirpe appartiene lo ivago di Pasternak. C'è una sequela che lega l'idiota e il dottore?
«È Vladimir Dal', autore del dizionario che cristallizza la lingua usata all'epoca di Dostoevskij, che accosta il termine idiota, insolito per la lingua russa dell'Ottocento, a una persona scioccherella dalla nascita, a uno jurodivyj, ed è questa la prima volta che tale figura, che tanta parte avrà nei romanzi successivi, fa la sua comparsa nell'opera di Fëdor Michajlovic. Per contro, l'opera di Pasternak si apre alla vigilia della festa che celebrava l'apparizione della Madre di Dio al beato Andrej Jurodivyj, e non a caso il protagonista di ivago si chiamerà Jurij Andreevic. Il tema dello jurodstvo, della rinuncia a un ruolo sociale integrato e ai beni materiali in cambio della possibilità di denunciare gli abusi delle autorità e dei potenti, appartiene a entrambi i personaggi. Una nota a piè di pagina: tra Mykin e ivago ci metterei Bulgakov a fare da tramite, che in alcune parti del Maestro e Margherita mima alla lettera pagine dell'Idiota. A sua volta Bulgakov è all'origine stessa del Dottor ivago, con la sua Guardia bianca, il cui incipit (i figli attorno alla bara della madre) è ripreso con precisione da Pasternak.
L'idiota, La guardia bianca, Il Maestro e Margherita, Il dottor ivago: quattro capisaldi della letteratura russa che ruotano attorno all'idea di bellezza e di armonia: agognata nel primo, perduta nel secondo, affidata a un patto col demonio nel terzo, e intrecciata alla grande storia, alla storia del singolo e alla natura nel quarto».
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