Colorata ma corretta e scontata: l'arte queer non fa male a nessuno

Si apre la mostra internazionale più inclusiva di sempre, curata da Pedrosa e all'insegna degli outsider e del Sud del mondo

Colorata ma corretta e scontata: l'arte queer non fa male a nessuno
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È una Biennale colorata, felice, magari povera (anche come livello medio qualitativo: quando esci dai 25mila mq di esposizione ricordi poche opere e nessun nome) ma orgogliosa della propria diversità. Dove «diversità» nel senso di queer, «eccentrico» - è la parola guida dell'intera mostra. A partire della facciata del Padiglione centrale, spettacolare, chiassosa, instagrammabile: è tutta ricoperta da un intervento di pittura muraria pesci, tartarughe, capanne, copricapi piumati realizzato dal collettivo indigeno Mahku dell'Amazzonia, Brasile. Come dal Brasile arriva Adriano Pedrosa, 59 anni, che si identifica apertamente come queer, curatore della 60esima Biennale di Venezia che apre sabato, fino al 24 novembre, il più grande evento d'arte del pianeta. Titolo, bilingue: Stranieri Ovunque - Foreigners Everywhere, slogan programmatico che deriva dal lavoro del collettivo artistico Claire Fontaine (nato a Parigi nel 2004) che Pedrosa ha riutilizzato cambiando l'ultima lettera di «Stranieri», la «i», in una schwa che cancella il maschile sovraesteso per rendere la lingua più inclusiva.

Benvenuti nella Biennale più inclusiva, fluida, transgender, anticoloniale e aperta al Sud del mondo di sempre, dove (è un rischio) il genere sessuale e la provenienza geografica possono contare più del talento. Il filo rosso che annoda i 331 artisti di 80 Paesi presenti in mostra è quello dello straniero rimasto troppo a lungo ai margini e al quale l'Occidente - ahi, il senso di colpa... - deve restituire ciò che gli ha tolto, con gli arretrati. Protagonisti sono l'emarginato, il queer, l'outsider, l'espatriato, l'indigeno. «La mostra è una provocazione positiva, anche per pagare un debito con gli artisti del XX secolo che vivevano nell'emisfero meridionale del pianeta e che per questo sono rimasti in ombra», ha spiegato Pedrosa presentando la sua mostra accanto al nuovo presidente della Biennale, Pietrangelo Buttafuoco, il quale come suo costume ha salutato ma senza fare dichiarazioni. In fondo questa non è ancora la sua Biennale, già decisa dal predecessore.

Suddivisa come da tradizione nei due spazi dei Giardini e dell'Arsenale, le cui architetture più museale la prima, più adatta alle grandi istallazioni la seconda - influenzano la scelta delle opere esposte, e distinta in un nucleo storico, che è un tributo agli artisti del XX secolo dimenticati dal sistema dell'arte occidentale, e un nucleo contemporaneo (il più significativo e originale), la Biennale di Adriano Pedrosa è un luogo in cui per esporre devi essere o un senza patria o avere due passaporti, devi muoverti all'interno delle sessualità e i generi, essere perseguitato o messo al bando, autodidatta o esperto di tecniche rifiutate dalle Belle arti: l'artigianato, i tessuti, il fatto a mano. Appena entrati, nella sala affrescata da Galileo Chini c'è una tenda di un popolo nomade dell'Anatolia dove le ragazze vengono confinate per un periodo prima delle nozze. E alla fine, giù in fondo all'Arsenale, l'ultima opera esposta è il murales di un collettivo indiano, l'Aravani Art Project, formato da donne e transgender che con il loro lavoro coloratissimo combattono le costruzioni di genere e le norme dominanti.

In mezzo, c'è tutto quello che ti aspetti da una Biennale queer: artisti provenienti dall'Egitto o il Pakistan, dall'Ecuador o la Colombia (di fatto quasi nessun europeo e pochissimi americani), battaglie contro vecchi e nuovi colonialismi, denunce delle crisi ecologiche e sanitarie, una forte ideologia woke (ma non aggressiva), istanze anti-machiste, anti-razziste e anti-potere. C'è tantissima pittura, persino molto figurativo, niente che abbia a che fare con l'intelligenza artificiale, pochissimo digitale. Siamo fermi agli anni '70. Ma del Sud del mondo. È il rurale che prevale sulla metropoli, la periferia che ha la meglio sul centro, i mondi altri sempre migliori del nostro, l'isola più pura del continente, l'emarginato più dignitoso dell'integrato, il migrante più dello stanziale. E l'Occidente che si lava la coscienza.

C'è anche spazio per la politica di oggi. Come nel lavoro della fiorentina Alessandra Ferrini, la quale qui porta un lavoro che "si inserisce nel panorama metodologio postcoloniale" sul trattato di collaborazione tra l’Italia e Gheddaffi nel 2008-2009 per criticare la dittatura in Libia, il governo Berlusconi fino al nuovo piano Mattei per l’Africa della premier Giorgia Meloni. O come nel lavoro della messicana Frieda Toranzo Jaeger che aggiorna all'ultimo momento la sua grande installazione modulare all'Arsenale (in cui immagina un futuro caratterizzato dalla libertà queer e da una comunione ecologica con la natura) con la scritta «Viva Palestina» tra un« scena lesbo e un ritratto-omaggio a Frida Kahlo.

Alla fine le idee sono tante, forse troppe; le ideologie robuste e le aspettative alte. Si punta più in alto degli 800mila visitatori di due anni fa.

Al netto della situazione geopolitica, delle guerre, del ticket a 5 euro per l'ingresso a Venezia che scatta a fine mese, la Biennale 2024 vuole esser ancora più inclusiva, in tutti i sensi. Non dubitiamo che ci riuscirà.

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