Biennale? No, la vera mostra è Ca’ Pesaro

La riapertura dopo 30 anni dello straordinario spazio espositivo affacciato su Canal Grande è stata snobbata dai critici attirati dalle polemiche sul Padiglione Italia e sulla Secessione

Biennale? No, la vera mostra è Ca’ Pesaro

Venezia - C’è un vero caso a Venezia in questi giorni di Biennale e diremmo anche che c’è un mezzo scandalo. Ma non artistico o organizzativo, uno scandalo mediatico. Fatto di faziosità, di disinformazione, di preconcetti e di superficialità. Lo «scandalo» si chiama Ca’ Pesaro.

No, non la mostra «Non voltarti adesso» che con furba manovra è stata contrapposta a «Collaudi. Omaggio a Marinetti» del Padiglione Italia, richiamando la storica «Secessione» di cento anni fa contro l’accademia di allora e «contro certe scelte passatiste della Biennale» di oggi.

Lo scandalo è che, fra mille polemiche e mille pregiudizi e alzate di ciglia e scuotimenti di testa e sorrisetti di compatimento di fronte alle «scelte passatiste» (leggi sempre Padiglione Italia di Luca Beatrice e Beatrice Buscaroli) che portano il nostro Paese «in serie C» (giudizio Aspesi-Bonami), la grande stampa nazionale (e forse in parte quella internazionale) ha passato sotto silenzio o liquidato in poche righe la riapertura, dopo trent’anni di chiusura e in occasione proprio di questa Biennale, del secondo piano di Ca’ Pesaro. Come dire: mille metri quadrati di straordinaria architettura affacciata sulla luce del Canal Grande e popolata di capolavori, da Wildt a Rodin, da Leonardo Bistolfi a Napoleone Martinuzzi, da Emilio Vedova a Lorenzo Viani, da Galileo Chini ad Aristide Sartorio ad Antonio Mancini, tanto per citarne alcuni in ordine sparso e senza nessun criterio cronologico. Accecati da un «furor destruendi» di squisita matrice politica, gli occhiuti soloni del giornalismo e della critica d’arte, non hanno visto niente.

Ma partiamo dalla «Secessione», ovvero dalla mostra «Don’t look now», voluta dal dinamico presidente della Fondazione dei Musei Civici Veneziani (di cui fa parte Ca’ Pesaro) Sandro Parenzo e finanziariamente resa possibile dalla Vhernier (creatrice di gioielli contemporanei) e dalla Fondazione Nicoletta Fiorucci. «E non facciamo gli schizzinosi quando si parla di sponsor - sottolinea Parenzo - perché questa mostra è a costo zero. Non costa nulla al Comune di Venezia né al contribuente. Del resto, vuole sapere quali sono i finanziamenti per i Musei civici che vanno dal Palazzo Ducale al Museo Fortuny, tanto per dirne due? Zero: dallo stato, dalla Regione, dal Comune. La Fondazione vive della biglietteria che copre il 99 per cento delle sue spese dal momento che nell’anno passato ha venduto biglietti per diciassette milioni di euro».

Più che legittima quindi l’iniziativa, presa due mesi fa ma comunicata solo alla vigilia della Biennale, di dare spazio a giovani e meno giovani artisti contemporanei non presenti alla Biennale, una scelta che in realtà non si voleva contrapporre a nessuno (tanto è vero che ieri è stata inaugurata insieme con le altre dal ministro Bondi) ma che sarebbe passata sotto silenzio senza il clamore polemico. Ma in questo modo, a passare sotto silenzio, è stato un evento di ben maggiore importanza, per l’arte e per il pubblico, cioè la riproposta di grandi opere d’arte moderna da tre decenni sigillate nella polvere.
Comunque, non molti volonterosi insistentemente richiamati dagli uffici stampa, si sono recati anche a vedere le opere dei dieci «secessionisti». Ed è stata una visita di grande interesse, soprattutto dal punto di vista dei paragoni. Perché è giusto e benemerito dare spazio alla nuova arte, e commovente è l’entusiasmo del giovane e ben chiamato curatore Milovan Farronato nell’illustrare le opere esposte. Giusto sottolineare i gorghi di luce di Nico Vascellari (classe 1979) che giocano sui pannelli delle pareti e del tutto secondario che quei pannelli siano gli incredibili bozzetti di Aristide Sartorio per il ciclopico fregio di Montecitorio. Mai visti fino ad ora.

Ma gli artisti, sottolinea giustamente Farronato, dialogano con le opere d’arte precedenti. E anche questo è legittimo. «Dialogare» sembra uno degli scopi precipui dei nuovi artisti. Così le tende viola scolorite e ripescate in un magazzino di Flavio Favelli che le ha appese alle finestre (un «ready made» da far impallidire Duchamp), il trapezio di pavimento impolverato di Giulio Frigo, gli ombrelli rotti di Paolo Gonzato «dialogano» per l’appunto con lo stupefacente gesso di Wildt e con «I borghesi di Calais» di Rodin. Non «dialoga» perché per sua fortuna parla da solo, l’interessante video della trentenne Anna Franceschini che con «Polistirene» propone, nel riprendere la fabbricazione di manichini, una folla di cloni inquietanti.

E a proposito di «dialogo»: da due anni Ca’ Pesaro aveva avviato un’altra mostra che si apre anch’essa in questi giorni, «Shadows must dance» del catalano Bernardì Roig, uno dei più significativi esponenti dell’arte contemporanea spagnola. In coproduzione con l’istituto per l’Arte di Valencia (dove si trasferirà a novembre) la mostra propone una selezione di sculture, disegni e video realizzati dall’artista negli ultimi quindici anni.

Nelle sale al primo piano di Ca’ Pesaro, le bianche, surrealiste figure di Roig fissano le opere d’arte esposte, si ritraggono, si spaventano, compiono gesti inconsulti, sottolineando con ironia ma anche con una sorta di indefinibile sgomento, l’ambiguo rapporto del visitatore con le opere d’arte, la necessità di ritrovare uno sguardo nuovo e puro e anche il rischio che l’arte alla fin fine possa anche fare male. L’arte, come Dio, è un rischio. E a Cà Pesaro di arte si parla: Klimt, Medardo Rosso, Mario Sironi, il ritratto della madre di Umberto Boccioni. Non ombrelli rotti.

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