Biocarburanti, verso una nuova frontiera

Costi di produzione più bassi, colture su larga scala, sostenibilità ambientale e assenza di competizione con l’alimentare: sono le direttrici che orientano la ricerca sui biocarburanti, biodiesel e bioetanolo, in parallelo allo sviluppo di tecnologie di produzione di seconda generazione. Un indirizzo sollecitato anche dalla decisione della Ue di elevare al 10% la quota parte dei biocombustibili entro il 2020. Tra le soluzioni più promettenti, tanto da muovere l’interesse delle principali compagnie petrolifere, l’impiego di alghe unicellulari coltivate in apposite vasche e nutrite con «iniezioni» di CO2; fissano naturalmente l’anidride carbonica e possono riprodursi molto velocemente, senza rubare terreno agricolo né sottrarre cibo ai consumi dei Paesi in via di sviluppo. Non solo tali colture potrebbero assicurare un elevato rendimento energetico (15mila litri per ettaro), ma essere anche utilmente poste accanto alle centrali elettriche più sporche per assorbirne la CO2. Si tratta ancora ricerca di frontiera, che si appunta sull’individuazione dei ceppi più idonei e sull’efficienza dei processi, ma rappresenta una scommessa sempre più verosimile per il biodiesel del futuro. Quello ricavato oggi con la spremitura di semi oleaginosi come soia, colza, palma, girasole, arachidi, e miscelabile con il gasolio per autotrazione (di norma fino al 30% senza modifiche ai motori), presenta caratteristiche qualitative piuttosto basse. Le nuove tecnologie di produzione dovrebbero superare questi limiti trasformando l’olio vegetale come già si fa nelle raffinerie con i petroli, tramite un processo di idrotrattamento. Una materia prima alternativa, balzata agli onori delle cronache per le esperienze già condotte in Asia e Africa, è costituita dai semi di una pianta velenosa, la Jatropha Curcas, le cui coltivazioni si vanno estendendo in Estremo Oriente come pure in America Latina. La resa per ettaro è quattro volte superiore a quella della soia e l’olio ricavato dalla spremitura e semplicemente filtrato può essere usato come biocarburante nei motori diesel. La pianta ha bisogno di poca acqua per crescere, sopravvivendo anche a ripetute stagioni siccitose; da un ettaro di coltura è possibile ricavare fino a 2mila litri di biocombustibile e un Paese come l’India l’ha già inserita nel proprio piano energetico. Proprio la necessità di molta acqua e la deforestazione rendono impraticabile la strada del bioetanolo, che ha caratteristiche affini alla benzina e di cui il Brasile è il maggiore produttore mondiale. Una scelta risalente agli anni '70 e che ha trovato posto nelle enormi piantagioni del Paese. In Italia, se anche tutto il terreno coltivabile (pari a circa il 40% dell’intera superficie) fosse destinato a produrre biocarburante, si potrebbe sostituire non più del 15% dei consumi di derivati del petrolio, senza peraltro considerare l’impatto ambientale dei fertilizzanti che contengono composti azotati. Gli attuali biocarburanti restano non competitivi rispetto ai prodotti di origine petrolifera, anche con il greggio a 80 dollari al barile: produrre un litro di bioetanolo con identico potere calorifico costa il 40% in più della benzina negli Usa e il doppio in Europa.

E anche la relativa competitività del biodiesel potrebbe ulteriormente diminuire con l’aumento dei prezzi delle materie prime destinate al mercato alimentare. Non manca, infine, il rischio che il quadro normativo ancora in evoluzione possa penalizzare i biocarburanti, come pure che gli eventuali dazi applicati all'export dei Paesi produttori li rendano meno concorrenziali.

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