Blair ci ripensa: no alla pena di morte per Saddam

Il premier britannico: «Contrari all’esecuzione di chiunque». Prodi e D’Alema: non eseguite la sentenza

Fausto Biloslavo

Oggi Saddam sarà di nuovo chiamato alla sbarra a Bagdad per la pulizia etnica dei curdi, mentre continuano le manifestazioni pro e contro la sentenza capitale all’ex rais, e i leader europei fanno a gara nel lanciare appelli per salvare la pelle al condannato.
Questa mattina è prevista la 21ª udienza del nuovo processo a Saddam e ad altri sei gerarchi del vecchio regime. Fra questi spicca il suo fedele cugino, Ali Hassan al-Majid, soprannominato «Alì il chimico» per aver bombardato con i gas il villaggio curdo di Halabya provocando oltre 5.000 morti.
Il nuovo processo riguarda la campagna Al Anfal, una serie di operazioni militari avvenute tra il 1986 e il 1989, che aveva come obiettivo ripulire il nord del Paese dalla presenza dei curdi. Secondo le stime di Human Rights Watch, un’organizzazione indipendente che si batte per il rispetto dei diritti umani, furono passati per le armi almeno 50mila uomini, donne e bambini. In realtà i curdi piangono la sparizione in fosse comuni, disseminate fino al confine con l’Arabia Saudita, di 180mila persone. Nelle zone obiettivo della campagna sono stati rasi al suolo il 90% dei villaggi, comprese 1.754 scuole, 270 ospedali, 2.450 moschee e 27 chiese. Kirkuk, capoluogo del nord ricco di petrolio, è stato addirittura arabizzato con l’espulsione dei curdi e il trasferimento nella città dei sunniti da altre parti del Paese.
La preoccupazione dei curdi è che Saddam venga giustiziato prima della fine del processo. Ieri il portavoce del governo curdo regionale nel nord dell’Irak, Khaled Saleh, ha fatto presente che «eseguire la condanna a morte prima della conclusione di tutti i procedimenti in corso avrà ripercussioni negative sul progetto di riconciliazione nazionale in Irak». Saddam deve rispondere anche dell’invasione del Kuwait e della feroce repressione della rivolta sciita del 1991 alla fine della prima guerra del Golfo. Il presidente curdo dell’Irak, Jalal Talabani, contrario da sempre alla pena di morte, ha fatto sapere che non ci sarà bisogno della sua firma per l’esecuzione di Saddam. In effetti il capo dello Stato può solo sospendere la condanna con un provvedimento di grazia, ma non è necessario il suo avallo per eseguirla.
Il coprifuoco imposto a Bagdad e in due province del triangolo sunnita sarà sospeso oggi, ma in realtà non ha evitato manifestazioni opposte per la condanna a morte di Saddam. Anche ieri gli sciiti della capitale hanno manifestato inneggiando alla forca per l’ex rais, mentre cortei opposti sono sfilati nelle roccheforti dei sunniti al grido di «Morte all’America» e «Saddam siamo pronti a sacrificarci, per te». A Baquba ci sono stati anche due morti mentre la polizia tentava di disperdere i manifestanti pro rais.
L’appello per la condanna a morte all’ex presidente iracheno è iniziato automaticamente ieri. Nove giudici avranno 30 giorni per esaminare le carte del processo. Non si capisce però quanto tempo abbiano per la decisione finale, ovvero se avallare o meno la sentenza capitale. L’unico dato certo è che una volta confermata in appello la pena di morte deve essere eseguita nel giro di un mese.
Nel frattempo si moltiplicano gli appelli alla clemenza da parte dei governi europei. A Londra il premier Tony Blair, che ha incontrato il premier italiano, Romano Prodi, ha ribadito di essere contro la pena capitale: «Siamo contrari alla pena di morte, si tratti di Saddam o di chiunque altro». Prodi, dal canto suo, ha ribadito che «l’Italia è contraria alla pena di morte, e anche in un caso così drammatico riteniamo che questa non debba avvenire. È un parere condiviso non solo dai politici italiani ma anche dalla maggioranza dei nostri cittadini.

Tuttavia ciò non diminuisce l’importanza e la gravità dei crimini commessi da Saddam».
Da Parigi il ministro degli Esteri D’Alema e il suo omologo francese, Philippe Douste-Blazy, hanno lanciato «un appello alle autorità democratiche dell’Irak affinché la sentenza non venga eseguita».

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