«Quando ho deciso di candidarmi, ho messo in conto che la mia vita sarebbe stata scannerizzata». Stefano Boeri, architetto e urbanista nonché aspirante sindaco di Milano, prende con filosofia l’articolo di ieri del Giornale che riporta alla luce un brandello del suo passato: il suo ruolo nell’aggressione al neofascista Antonio Braggion nell’aprile 1975,culminata nella reazione a revolverate di Braggion e nella morte del giovane 17enne Claudio Varalli, militante del Movimento studentesco e amico di Boeri. Processato insieme a alcuni suoi compagni per lesioni aggravate, danneggiamenti e porto abusivo di armi improprie, Boeri se la cavò con l’amnistia. «Non intendo ripudiare il mio passato e sono fiero di tutto quello che ho fatto», ha appena finito di dire Boeri. Ma si riferisce alla sua vita più recente, al suo ruolo di professionista affermato, al pragmatismo che l’ha portato nel mirino di alcune «anime belle» della sinistra che lo hanno accusato di essere un «cementificatore». Quando invece si riporta ancora più indietro l’orologio, e si va alla fine degli anni Settanta, alla asprezza dello scontro tra opposti estremismi che insanguinava Milano, Boeri si mostra meno orgoglioso. Si appella ai suoi diciott’anni, e alle colpe dei «capi» che mandavano i ragazzi allo sbaraglio. Compreso quel maledetto mercoledì di aprile.
«A leggere il Giornale - dice Boeri - sembrerebbe che io in quegli anni facessi lo sprangatore. Se ben ricordo, in realtà, le ho soprattutto prese. A spedirmi in ospedale furono quelli di Autonomia Operaia». Tutto qui? Poi, però, il candidato sindaco accetta di entrare nei dettagli, di quegli anni e di quel giorno. «A diciott’anni io ero nel Movimento studentesco. Erano anni di passioni, di turbolenze, tragici, drammatici. Non sempre chi ci guidava ebbe l’equilibrio giusto. Ci sono stati molti giovani che hanno perso la strada, che hanno perso delle occasioni. E purtroppo ci sono stati anche giovani che hanno perso la vita. C’erano incontri violenti con gli esponenti del neofascismo. La morte di Varalli mi ha fatto capire la follia di quanto accadeva. Ma voglio ricordare che c’era chi, come il Movimento studentesco, a quegli scontri si preparava con sassi e bastoni. E chi, come Braggion, si preparava con la pistola».
Sarà, architetto Boeri. Ma a leggere le carte del processo, quel giorno in piazza Cavour non ci fu uno scontro tra fazioni opposte. Ci fu una aggressione a sangue freddo da parte vostra nei confronti di un paio di avversari politici.
«Il processo dice questo, in effetti. E sostanzialmente è vero, le cose andarono così. Vorrei solo precisare che non è che stessimo andando a caccia di neofascisti: tornavamo da una manifestazione quando in piazza Cavour incontrammo quel gruppetto che, se mi ricordo bene, stava volantinando. E la decisione dei nostri capi fu quella di andare all’attacco. Nella tragedia, una decisione quasi ridicola nella sua insensatezza, perché noi avevamo i bastoni, e dall’altra parte c’era una pistola».
Boeri non lo dice, ma nelle carte del processo c’è anche il nome del «capo» che guidava il gruppo dell’ultrasinistra, e che diverrà poi un dirigente del Psi milanese. Ma bastano le colpe dei capi, a spiegare le tragedie di quegli anni?
«La morte di Varalli mi fece capire la follia totale di quello che accadeva.
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