"Boris" una storia attuale sul potere cieco e spietato. Così l'opera di Musorgskij è stata fraintesa (ad arte)

Ritratto di un Paese in armi tra doppiezze, fanatismo e manipolazioni. Un lavoro che beffa i canoni del suo tempo. Niente duetti d'amore, ma la sofferenza di un popolo

"Boris" una storia attuale sul potere cieco e spietato. Così l'opera di Musorgskij è stata fraintesa (ad arte)

«Presto il nemico verrà, e scenderà l'oscurità/Un'oscurità triste e impenetrabile, come geme l'Innocente nel mio Boris, e temo che non si lamenti per niente. Sanpetersburg e i suoi dintorni sono per i bipedi un immenso campo d'addestramento militare per bambini. Si possono vedere sulle piazze d'armi dei bebé-cavallette pronti a sfilare con la loro pancia flaccida, le loro gambe arcuate e i loro fucili di fabbricazione casalinga».

La visione descritta dal compositore Modest Musorgskij della Russia in armi sotto lo zar Alessandro II potrebbe benissimo adattarsi alla situazione attuale, così come alle cicliche militarizzazioni della sanguinosa storia russa, con buona pace dell'attuale monarca del Cremlino che non vorrebbe si parlasse di «guerra». Mentre i cadaveri veri vengono più o meno occultati all'opinione pubblica, qualche voce si è levata contro l'opportunità che il Teatro alla Scala aprisse la sua stagione con il Boris del compositore russo Modest Musorgskij. Un rilievo intriso di propaganda che fa mostra di non conoscere per nulla o di ignorare ad arte cosa proprio l'essenza dell'opera suddetta. Non si tratta solo di una rappresentazione shakespeariana di un periodo fra i più turbolenti della storia della Russia (i sanguinosi Torbidi, l'interregno fra la morte del figlio di Ivan il Terribile e l'avvento dei Romanov, 1598-1613), materia mediata dalla scrittura fascinatrice dell'omonima tragedia di Aleksandr Puskin e delle non meno grandi cronache dello storico Nicolaj Karamzin, ma di mostrare cosa un uomo fa per arrivare al potere, quali sono i rapporti con le masse, la doppiezza e il tradimento che circondano l'autocrate, il fanatismo religioso, il doppio volto del monarca spietato e del padre amoroso, l'eterna manipolazione di tutti e di tutto a fini personali. Temi che attraversano la storia (nono solo) della Russia, da Boris che uccide lo zarevitch bambino Dimitri e rimane ossessionato dal suo fantasma a Stalin, cui non dispiaceva proteggere alcuni artisti «folli» che pure osarono criticarlo come Boris difende davanti alla Cattedrale di San Basilio l'Innocente che gli chiede di uccidere quelli che perseguitano come lui ha fatto con il piccolo Dimitri. Non ci vuole un'aquila per leggere quanto succede ora al Cremlino, il ritorno (o la mai scomparsa) del passato. Quello che ha fatto la differenza e ha portato Musorgskij alle vette dell'arte è stata la sua missione di musicista votato allo «studio dei tratti più sottili della natura umana, come quello delle masse», scavando come nessuno prima di lui nei recessi dell'anima umana, scovando le più sottili inflessioni della lingua parlata onde rendere vivi e diversi tutti i personaggi storici e di fantasia delle sue opere. Per questo già nella prima versione del Boris (1869) - quella che viene presentata alla Scala sono presenti le scelte etiche e drammaturgiche di un'opera che si fa beffe dei canoni dell'opera del suo tempo: niente linguaggio aulico, né duetti d'amore, né balletti, romanze o sfoggi vocali, sostituiti da sette scene incatenate senza soluzione di continuità, dove potenti e umili parlano la stessa lingua vera, dove ha un spazio senza precedenti il coro, cioè il popolo che supplica, soffre, mormora, prega, inveisce e si rivolta. «Lui solo è vero, grande, privo di trucco come di travestimento. Che ricchezza veramente terrificante offre la parlata popolare alla caratterizzazione musicale, fino a quando le ferrovie non avranno interamente arato tutta la Russia! Che miniera inesauribile è la vita del popolo russo per chi vuole scoprire il reale!», come Musorgskij scriveva al grande pittore Ilya Repin, uno dei fratelli artisti al cui potente realismo guardava il compositore.

Il populismo di Musorgskij sarà santificato nell'era comunista sovietica, pronta a sottolineare nel figlio illegittimo di un proprietario terriero aristocratico e di una serva, il cantore del proletariato, anche se quest'immagine era assolutamente lontana dalla sua natura anarchica, fortemente nazionalista e cultrice di un'immagine ideale dei contadini. La messa in scena di questo nuovo Boris Godunov inaugurale, affidata al regista Kasper Holten, promette di essere incentrata sui temi della coscienza, del potere, della manipolazione, della censura e della verità. In primo piano è stato portato il personaggio del monaco Pimen, lo storico che conosce la verità sull'infanticidio. «Pimen è pericoloso non solo in quanto testimone di verità», scrive Holten nelle note di regia, «ma anche perché insiste nel raccontare la storia così come l'ha vista, invece di accettare la narrazione ufficiale, creata da chi detiene il potere. Nel corso dell'opera presentiamo Pimen quasi come fosse un giornalista che combatte per la libertà di parola e contro la censura che vediamo in atto: abbiamo ambientato l'intera opera all'interno della cronaca della storia russa scritta da Pimen».

Chissà se questa riflessione così importante sul coraggio del giornalismo militante - impossibile non pensare a una figura emblematica come la giornalista Anna Politovskaya - serva di timido stimolo se non proprio al coraggio (chi non ce l'ha non se lo può dare, rammenta Don Abbondio) alla dignità critica delle milizie di commentatori e alle coorti di pettegoli, nemiche storiche del vero e dell'obiettività.

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