Tutto quello che le agenzie di rating non vogliono vedere sui conti italiani

Le agenzie non migliorano il giudizio sul Paese nonostante la crescita dell'economia e dell'occupazione. E non si curarano di due fattori fondamentali: il patrimonio degli italiani e la traiettoria dello spread Btp-Bund

Tutto quello che le agenzie di rating non vogliono vedere sui conti italiani

Il fantozziano "com’è umano, Lei" bene interpreta un atteggiamento assai diffuso in Italia nei confronti delle agenzie di rating. Una genuflessione pressoché collettiva accompagna i momenti che precedono il verdetto sulla nostra solvibilità finanziaria: se il downgrade, ovvero la bocciatura, viene evitato, si tira un bel sospiro di sollievo per la grazia ricevuta. Andrà probabilmente così anche il prossimo 22 novembre, quando a pronunciarsi sarà Moody’s che tiene Roma sul filo del rasoio in ragione di una valutazione di appena una tacca sopra il temutissimo "junk investment grade" (livello spazzatura), quello che escluderebbe i nostri Btp dai portafogli dei fondi pensione e degli altri investitori istituzionali.

Tale atteggiamento di soggezione nei confronti di chi assegna i voti come una maestrina dalla penna rossa si va a saldare agli alti lai che spesso si sentono sulla parabola del debito pubblico. Un atteggiamento alla Tafazzi che finisce poi per riverberarsi sui mercati e pure sul giudizio che hanno di noi le cancellerie europee. Per quanto il debito sia effettivamente molto oltre quello fisiologico, sembra però mancare la percezione dei progressi compiuti dall’Italia negli ultimi anni, anche a costo di sacrificare risorse necessarie per sostenere la crescita economica.

Bene ha fatto perciò il presidente della Repubblica Sergio Mattarella a definire "irragionevole che non venga notato dalle agenzie di rating nel valutare prospettive e affidabilità dell’economia italiana" la posizione attiva sull’estero che rappresenta il 10,5% del Pil. È un richiamo forte che pare puntare l’indice proprio contro il core business delle stesse Signore del rating, ovvero l’incapacità di emettere un verdetto puntuale, analitico, prospettico e privo di pregiudizi. A ben guardare uno stigma che Moody’s, Standard&Poor’s e Fitch si trascinano da decenni, non essendo state in grado di prevedere né il crac Enron negli Stati Uniti, né quello Parmalat in Italia, e di avere in buona misura contribuito a dare la stura alla crisi dei mutui subprime dopo avere colpevolmente mantenuto la tripla A (il top dell’affidabilità) a Lehman Brothers, poi finita sul binario morto.

Errori macroscopici di valutazione che fanno il paio con i conflitti di interesse che rischiano di intaccarne la capacità di giudizio e che sono riconducibili alla presenza nel loro azionariato di alcune delle regine del risparmio gestito come la Berkshire Hathaway di Warren Buffett (Moody’s), BlackRock, Vanguard e Capital Research Management Capital World (S&P) e Hearst Corporation (Fitch). Niente di illegale, poiché le norme internazionali lo consentono. Resta però il dubbio se la valutazione su un elemento così delicato come i debiti sovrani sia esercitata senza pressioni da parte di chi non solo controlla le agenzie di rating, ma scommette (o specula) per esempio su Btp, Bund e Oat.

In ogni caso, di una certa pigrizia nel modificare il voto sull’Italia si è avuta recente conferma quando S&P e Fitch hanno mantenuto invariato il rispettivo giudizio a BBB, con la seconda che ha rivisto al rialzo l’outlook, ovvero la prospettiva, da «stabile» a «positivo». Persino umiliante alla luce dell’andamento della crescita economica e dell’occupazione italiane, soprattutto se confrontate al passo sempre più claudicante della Germania. Con l’aggravante che le agenzie non sembrano curarsi affatto di due fattori fondamentali. Il primo rimanda al patrimonio degli italiani, che tra asset e mattone tocca quota 11mila miliardi di euro, e riguarda anche i debiti finanziari delle imprese che si sono ridotti nel 2022 (ultimo dato disponibile) al 68,5% del Pil contro una media dell’euro zona superiore al 105 percento. Cifre che dovrebbero avere un certo peso quando si posa la lente sulla prosperità di un Paese. Il secondo interessa invece la traiettoria dello spread Btp-Bund, in caduta di quasi il 50% dalle elezioni del settembre 2022 vinte dalla coalizione di centro-destra, mentre il differenziale francese è salito di circa il 30% per effetto delle turbolenze politiche. E giusto per ricordare che i compiti a casa l’Italia li sta facendo, negli ultimi 15 anni il nostro debito è sceso al 25% di quello francese rispetto al precedente 50 percento.

Un altro aspetto non va sottovalutato. Visto che l’assegnazione dei rating si ripercuote sullo spread, è evidente che una pagella migliore avrebbe effetti immediati sulla spesa per interessi.

A tale proposito, l’Osservatorio dei Conti Pubblici Italiani ha calcolato che se il tasso d’interesse cresce dell’1%, alla lunga gli interessi sul debito pubblico aumentano dell’1,3%: in soldoni, circa 22 miliardi nell’arco di quattro anni sottratti a sanità, ricerca, scuola e infrastrutture. Sosteneva Mario Draghi: «Bisognerebbe imparare a vivere senza le agenzie di rating». Ben detto. Ma per ora non ci è concesso. Ci è però concesso di dare loro la sveglia su come vanno usate le tabelline.

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