Bush: «I democratici non hanno ancora vinto»

«In Irak è un brutto momento, ma l’America sta vincendo»

Alberto Pasolini Zanelli

da Washington

George Bush ha parlato soprattutto dell’Irak. E ha ripetuto, in sostanza, l’unica promessa che può permettersi oggi: siamo in un brutto momento, ma l’America «sta vincendo». Un argomento che non fa una piega: nel conteggio di una guerra convenzionale, infatti, è impensabile che la Superpotenza possa essere piegata da qualsiasi nemico al mondo, tanto meno dalle bande di insorti, terroristi o guerriglieri, secondo come li si preferisce chiamare. Più concretamente, le cose in Irak continuano a procedere secondo una scivolata all’ingiù che è ormai palese da più di due anni. Non c’è nessuna garanzia sull’inizio del ritiro delle truppe dal fronte, anzi. Se il comandante del contingente in Irak, generale George Casey, lo chiederà, il presidente è disponibile ad aumentare la presenza americana.
Bush ha voluto trasmettere al pubblico americano un «messaggio» che riguarda ormai soprattutto l’altra «campagna» in corso: quella elettorale. Mancano meno di due settimane all’appuntamento con le urne per l’elezione di una nuova Camera e di un nuovo Senato, e le notizie che giungono da molti Stati non sono migliori, per l’inquilino della Casa Bianca, di quelle che giungono dai teatri di guerra nel Medio Oriente. Il partito al potere, dicono i sondaggi, non è mai stato così indietro.
I responsi una volta tanto sono concordi: gli americani preferiscono in questo momento i democratici ai repubblicani, i «non Bush» a Bush. Un’unanimità che contiene anche il tallone d’Achille dell’opposizione, che è la cifra negativa della sua attuale popolarità. La maggioranza degli americani disapprova la guerra in Irak, esprime sfiducia sul suo andamento, è genericamente favorevole a un «cambio di rotta»; ma i democratici non propongono nessuna nuova rotta, nessun cambiamento, nessuna strategia, nessuna data, nessun tempo e nessun modo. È l’Irak che li porta in alto, e loro parlano dell’Irak il meno possibile. Parlano invece a lungo e con grande sfoggio di retorica, del cosiddetto «disastro» dell’economia americana, che invece gode di buona salute.
Secondo la logica Bush dovrebbe parlare soprattutto di questo. Siamo invece a un capovolgimento paradossale sia rispetto alle campagne elettorali classiche, in cui ogni partito di solito cerca di mettere al centro del dibattito gli argomenti in cui è più forte, sia della «variante» introdotta due anni fa da Karl Rove, lo stratega della campagna elettorale di Bush: «Colpire l’avversario sul lato forte, non su quello debole».
Se vincono i democratici, sostiene in sostanza Bush, gli americani pagheranno più imposte e saranno meno sicuri. E, utilizzando un’immagine del football americano, ironizza sui suoi avversari: «Stanno facendo festa nell’area piccola, ma non hanno ancora segnato».
Dunque sull’Irak i repubblicani debbono attaccare o, in questo caso, contrattaccare. Non conviene loro scendere nel campo minato delle cifre. La quantificazione della guerra era in tempi felici l’hobby del ministro della Difesa Rumsfeld. Oggi sarebbe un boomerang che perfino un uomo audace e spregiudicato come lui si guarda dal lanciare. L’ultimo dato è l’estrapolazione di un premio Nobel per l’economia, Joseph Stiglitz: andando avanti così, la guerra in Irak finirà col costare 380mila dollari al minuto.
Le elezioni del 7 novembre non costeranno a Bush fino a questi livelli. Lo aiuta il fatto che nella maggior parte dei collegi elettorali la gente tende a rieleggere il deputato uscente, quale che sia il suo partito.

Anche così appare oggi possibile, anzi probabile, che i repubblicani perderanno la maggioranza alla Camera, mentre il Senato è appeso al filo del rasoio. Non è dunque un paradosso se alcuni consiglieri di Bush sono in questo momento più ottimisti sull’andamento della guerra in Irak che sul verdetto delle urne il 7 novembre.

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