Bush: «Vinceremo in Irak e anche le elezioni»

Alberto Pasolini Zanelli

da Washington

«Sono tempi duri, ma vinceremo». I tempi duri sono in Irak, la vittoria è promessa in America, nelle elezioni per il Congresso in calendario per il 7 novembre. Nonostante i sondaggi premino i democratici, Bush è convinto che i repubblicani conquisteranno sia la Camera sia il Senato.
Per quanto riguarda la guerra, l’America non scapperà da Bagdad, però è pronta ad esaminare «strategie alternative». Una serie di dichiarazioni, quelle di George Bush nella sua serie rinfittita di conferenze stampa preelettorali, che contengono argomenti a tempo breve e a consumo interno, ma anche qualche concessione e innovazione potenziale per quanto riguarda il conflitto. Prima di salire sul podio il presidente aveva tenuto un nuovo «consiglio di guerra» dedicato interamente alla situazione irachena, in presenza del ministro della Difesa Donald Rumsfeld e del generale George Casey, comandante del contingente Usa in Mesopotamia. Il verdetto è che la situazione è difficile, i tempi sono duri ma gli Stati Uniti non possono «tagliare la corda prima che la missione sia completata». «Se ce ne andiamo dall’Irak - ha ripetuto Bush echeggiando quello che è uno dei temi della sua campagna elettorale - prima che la missione sia terminata il nemico ci inseguirà fino a casa».
Dunque bisogna persistere, pazientare, non fare come i democratici che vorrebbero «cut and run», «tagliare la corda», appunto. L’America resterà dunque «al fianco degli iracheni», anche se è pronta a «prendere in considerazione richieste di rinforzi che dovessero venirvi dai comandanti militari». Il generale Casey ha avanzato questa richiesta più di una volta, scontrandosi sempre col veto del ministro Rumsfeld. Naturalmente un più largo impegno militare sarebbe scarsamente popolare in America, ma meno demoralizzante che la continuazione della situazione attuale con il suo costante deterioramento, che non permette né di conseguire decisivi successi né di alleggerire la pressione ritirando delle truppe.
Ma, ed è questa la maggiore novità, l’uomo della Casa Bianca è ora pronto a «esaminare strategie alternative». Che non contemplano naturalmente il ritiro, ma un atteggiamento più flessibile e una correzione di rotta del genere tante volte proposto dai critici in alternativa allo stallo attuale. È la prima concessione di Bush in questo senso dall’inizio della guerra; ma il presidente è stato attento a distinguere fra critici e critici. Rispolverando lo slogan efficace del «non tagliare la corda», Bush chiude la porta in faccia alle critiche di parte democratica ma la riapre per i repubblicani, in particolare per i «moderati», che da tempo covano il loro malcontento ma che sono stati finora esclusi dalla stanza dei bottoni. Bush intende dare spazio e ascolto, da adesso, alla «commissione di studio» presieduta dall’ex ministro degli Esteri James Baker, considerato molto vicino a George H. Bush.
In complesso il presidente è apparso sulla difensiva per quanto riguarda l’Irak. Per esempio quando ha smentito che la guerra a Bagdad e dintorni sia costata finora 665mila morti, la cifra avanzata in uno studio pubblicato dalla prestigiosa rivista medica britannica Lancet. «Non è una cifra credibile», ha detto Bush. Domanda: «Lei conferma dunque la Sua cifra di 30mila morti?». Risposta: «Confermo che sono morti un sacco di innocenti».
Sulle elezioni è categorico: «A novembre vinceremo tutto: Camera e Senato».

Un ottimismo in contrasto con gli ultimi sondaggi, che hanno registrato una vera e propria frana nelle intenzioni di voto per il Partito repubblicano, in gran parte causata dallo scandalo del deputato pedofilo della Florida e dalla reazione degli elettori religiosi. I democratici sono in vantaggio con un margine che va dal 13 per cento dell’Abc al 20 per cento della Gallup al 23 per cento della Cnn.

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