
La pandemia e la guerra in Ucraina hanno certificato e reso evidente una tendenza in atto da ormai vari anni: la fine della globalizzazione. Dopo una stagione caratterizzata da una fiducia senza limiti in un modello globalizzato, siamo entrati in un nuovo periodo storico che possiamo definire un mondo post-globalizzato.
Si intitola proprio La globalizzazione è finita. La via locale alla prosperità in un mondo post-globale (Fazi editore, pagg. 552, euro 24) il nuovo libro di Rana Foroohar, vicedirettore del Financial Times, in cui si analizza il cambio di regime in atto.
La Foroohar individua nel 2001 il momento in cui la globalizzazione economica è diventata la forza trainante della politica e delle imprese occidentali con l'ingresso della Cina nell'Organizzazione mondiale del commercio (Wto). In quel momento non si è tenuto in considerazione cosa avrebbe comportato «l'improvviso afflusso di manodopera a basso costo nel mercato globale e l'effetto che ciò avrebbe prodotto sui redditi e sulle vite dei lavoratori» e, far entrare la Cina nel Wto senza richiedere le necessarie contropartite, è stato il principale errore compiuto dal mondo politico ed economico americano, determinato «da un livello generale di arroganza nei confronti dei cinesi».
«In base a quale motivo - si chiede la Foroohar - i politici e i dirigenti aziendali statunitensi hanno mai creduto che, per qualche miracolo, i cinesi se ne sarebbero stati buoni al loro posto nell'ordine mondiale e nel sistema commerciale esistente?». Solo quindici anni dopo, in particolare durante la prima presidenza Trump, ci si è accorti dell'errore compiuto quando ormai forse era troppo tardi.
Se da un lato si è verificato un calo del costo dei prodotti per i consumatori e per le aziende produttrici, dall'altro è avvenuta la perdita dei posti di lavoro in Occidente, determinando un impoverimento delle classi lavoratrici. A ciò va aggiunto che «se è vero che la globalizzazione ha reso il pianeta più ricco nel suo complesso, questa ricchezza si è però concentrata in gran parte in alto, tra le élite finanziarie e manageriali che possiedono la maggior parte delle risorse, e solo in una certa misura in basso». Questo fenomeno ha determinato la crescita dei partiti sovranisti e populisti e, aggiungiamo noi, ha fatto emergere le contraddizioni delle forze di sinistra che, sposando questo sistema, hanno finito per abbandonare le istanze dei ceti più deboli.
Il processo di globalizzazione ha infatti determinato dei vincitori e dei vinti schiacciando non solo i ceti più deboli ma anche la classe media che si è impoverita, così è avvenuta «la scomparsa delle aziende agricole a conduzione familiare e il crollo delle piccole imprese allorché il paese ha barattato i posti di lavoro con i prezzi bassi dei grandi magazzini, l'esternalizzazione della produzione in Cina e in altre parti del mondo in via di sviluppo e il conseguente declino dell'innovazione e della crescita».
I prezzi più bassi dei prodotti acquistati nei grandi magazzini non hanno compensato la perdita di posti di lavoro e di reddito anche perché si è verificato un aumento dei prezzi di tutto ciò che caratterizza l'esistenza della classe media come gli alloggi, l'istruzione, l'assistenza sanitaria. Da qui la constatazione che «la globalizzazione, almeno quella che abbiamo conosciuto negli ultimi decenni, ha fallito» ed è perciò «tempo di azzerare tutto».
Acquisire la consapevolezza che esistono alcuni ambiti, i cosiddetti settori strategici, che devono rimanere al di fuori dei processi di globalizzazione e tornare a produrre internamente quando possibile non significa favorire il protezionismo bensì realizzare politiche economiche e sociali di buon senso.
Secondo Rana Foroohar continuare su questo modello è «insostenibile» e l'autrice sottolinea la necessità di un cambiamento in cui «la regionalizzazione e la localizzazione rappresentano il futuro» accorciando le catene di approvvigionamento. Ciò non significa cancellare la globalizzazione quanto regolamentarla e porre dei limiti, poiché stiamo entrando in una nuova era di localizzazione e non è per forza una cattiva notizia.
Occorre pensare «un sistema che bilanci meglio le esigenze del locale con le realtà del globale» poiché, scrive la Foroohar, oggi siamo «in un nuovo mondo post-neoliberista». Il grande equivoco su cui si è basato il neo-liberismo è che «il libero scambio non funziona bene se tra i partner non sussiste un sistema di valori politici ed economici condivisi». Già Adam Smith sosteneva che, affinché si verifichi un corretto funzionamento dei mercati liberi, i partecipanti devono avere un quadro morale condiviso, cosa che evidentemente non è avvenuta tra gli Stati Uniti e le democrazie liberali occidentali con altre nazioni come la Cina.
La globalizzazione è infatti l'emblema di un modello neoliberista che è entrato in crisi e ora si sta formando un nuovo sistema, un passaggio che richiederà però tempo poiché «così come il mondo neoliberista non si è formato da un giorno all'altro, il nuovo mondo prenderà forma con il tempo, pezzo su pezzo, legge dopo legge, una comunità dopo l'altra».
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