Dino si aggancia ai respingenti del tram ogni pomeriggio. Poi sfila via fendendo la città, invisibile, silenzioso. La sua figura sottile si sgancia da quel passaggio gratuito soltanto in prossimità di Campo Testaccio. Scende già vestito per la partitella, scarpini un po' consunti ai piedi, indosso l'unica maglia giallorossa che il club gli ha fornito. Dietro ci vorrebbe scrivere "Viola", che poi sarebbe il suo cognome, ma non è ancora quello il tempo giusto, le casacche restano immacolate. Comunque quando gioca per i ragazzini di quella squadra lì, che poi sarebbe la Roma, è come se qualcosa lo facesse sussultare ogni volta. Toscano di nascita, romanista d'adozione.
Poi un giorno il suo amico Silvio Piola lo tira per un braccio. "Eddai, sei bravo, vieni a fare un provino alla Lazio". Dino Viola ci va pure. E lo passerebbe anche. Ma quella per lui è la metà sbagliata del cielo. Equivarrebbe ad ingerire una compressa di cianuro. No, non può accettare. Un rigurgito d'amore per la Roma lo costringe a declinare la gentile offerta. Un adolescente con i sentimenti già limpidi.
Certe volte le infatuazioni giovanili si distillano. Questa invece si propaga irresistibile. Dino pensa continuamente alla Roma. Rimugina sui sentimenti ancestrali che lo legano al club. Si sofferma spesso a fantasticare, pensando che magari un giorno potrebbe fare qualcosa anche lui per contribuire ad accrescerne la gloria. E nemmeno quando nella sua vita subentra un altro amore, quello per la moglie Flora - sposata nel 1942 - quella torcida interiore si dissipa. Anzi. Ad una manciata di giorni dalla luna di miele la convince a sciropparsi 40 km di bicicletta per raggiungere il campo del Livorno, dove gioca la formazione del suo cuore.
Viola nutre una passione viscerale. Lapilli emotivi che pervadono e ti disarmano. Continua a seguirla senza sosta, giurando a Flora che comunque lui ha due amori soltanto nella vita, lei e la squadra. E nel frattempo accorcia sempre di più le distanze dal posto che desidera abitare fin da bambino. Perché Dino fa il pilota collaudatore, ma l'atterraggio della sua vita dev'essere un posto differente dai campi dell'aviazione militare. Dev'essere la Roma.
Dapprima entra nel Consiglio d'amministrazione. Poi, con l'accavallarsi del tempo, riesce a scalare il suo sogno. Il 16 maggio 1979 acquisisce il pacchetto di maggioranza del club assieme al socio e amico di sempre Antonio Cacciavillani. L'impresa gli è riuscita grazie alle palanche che zampillano dalla sua azienda di macchinari di precisione per uso militare, ma appena si assesta dietro alla scrivania del club, capisce che deve dedicarcisi completamente e delega ad altri di curare gli affari di famiglia. Perché raggiunto un sogno, adesso Dino ne coltiva un altro: portare il secondo scudetto.
Ci proverà cannando i primi tentativi, ma alla fine quel fervore verrà ripagato. Un settimo posto il primo anno, ma comunque la gente dagli spalti commenta benevola: "La rometta è finita, sta tornando la Roma". Percezione corretta. Quello di Viola è un maquillage irrefrenabile. Arriva un brasiliano che si chiama Paulo Roberto Falcão. Pensare che sarebbe pure una scelta di quarta mano, dopo le velleitarie suggestioni coltivate per Boniek, Rumenigge, Zico. Comunque Nils Liedholm pare soddisfatto. La stagione 1980/81 è quella dello "scudetto sfuggito per centimetri", come risolverà signorilmente la questione viola, dopo gli stracci che volano per gli arbitraggi pro Juve.
Appuntamento soltanto rimandato. Quel desiderio - che in fondo diventa più bello quando lo realizzi - diventa tangibile nel 1983. Vince lo scudetto con i Tancredi ed i Maldera, i Di Bartolomei e i Conti, gli Ancelotti e tutti quegli altri. Per lui è un ceffone al palazzo del potere, una spallata che crepa le torri d'avorio delle strisciate del nord. Di sogno in sogno, Viola lancia la volata per la conquista della Coppa dei Campioni, che sfuma con la più aspra delle modalità.
Dino scansa la delusione e moltiplica gli sforzi per il suo club. Acquista Cerezo, anche se non può perché si sono dissolti i termini della finestra di mercato. Fa sedere in panchina lo svedese Eriksonn, anche se non può, perché vige il divieto di tesserare allenatori stranieri.
A sua moglie, dopo un ricovero urgente per un'ulcera, sussusserà dopo il risveglio in ospedale: "Meno male che non sono morto, ho da fare ancora tanto per la Roma".Darà tutto quello che ha, fino alla fine dei suoi giorni, nel 1991. Una lunga storia d'amore. Quel bambino agganciato al tram non ha mai tolto la maglia giallorossa.
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