Quel dono inestimabile di Eriksson

L'allenatore e quell'immagine che sembra un controsenso. Il sorriso svedese ha smesso di incantare. Ma Sven Goran ha cambiato per sempre una generazioni di tifosi

Quel dono inestimabile di Eriksson
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Questo non è un articolo oggettivo. Non è un resoconto dei trofei di Sven Göran Eriksson né una dotta analisi sul suo tipo di calcio, così innovativo e vincente, tremendamente bello rispetto a questi tempi così noiosi. Non è neppure un elogio degli ultimi otto mesi, della lotta contro il tumore al pancreas, del gioioso tour nei suoi stadi, dei saluti, degli abbracci, dei messaggi pieni di vita proprio mentre si preparava educatamente a morire. Questo è un ricordo di un simbolo sportivo, di un uomo in grado - vuoi per fortuna, vuoi per capacità - di lasciare un ricordo indelebile in un’intera generazione di tifosi. È la fotografia di un sorriso, che all’età di 76 anni ha smesso di incantare.

L’istantanea di Sven che ogni laziale si porterà nel cuore è paradossale, forse un controsenso. Perché composta da due immagini così opposte eppure così simili. La prima campeggia su quasi tutti i giornali del mondo: ritrae l’allenatore seduto in panchina con l’occhiale invisibile, i capelli radi ma ordinati, con un sorriso accennato, mai esagerato. Ironico sì, sguaiato neanche per scherzo. Provate a ricordare la compostezza con cui festeggiò negli spogliatoi il secondo scudetto della “prima squadra della Capitale”, un evento tanto storico quanto innaturale che si verifica in media ogni 60 anni. Andatevi a rivedere il filmato, benedetto Youtube: lo spogliatoio laziale è tutto un rimbombare di grida, calciatori nudi e sporchi, l’Olimpico è invaso da migliaia di tifosi impazziti, gente che abbraccia sconosciuti, un sogno che si avvera mentre mezza Italia gode per la sconfitta della Juventus a Perugia, epilogo del più folle dei campionati di sempre. È tutto un turbinio di emozioni. Ma lui se ne sta lì, felice certo; sorridente ovviamente; ma composto, flemmatico, elegante. Il commento a caldo: “Bello, sofferto tanto ma bello”. E basta. Solo cinque parole mentre un intero popolo versava lacrime di gioia. “Dio tifa la Lazio”, titolò un quotidiano straniero. Era vero. Ma se l’emissario divino capace di mettere a terra il miracolo era anche lui al settimo cielo, beh: Eriksson non lo diede a vedere.

La seconda istantanea è più recente. Sven Goran fa il suo ingresso all’Olimpico per ricevere l’abbraccio della sua gente che ha da poco scoperto la malattia terminale dell’amato mister. Lo stadio, al buio, accende le torce dei cellulari e canta. Eriksson sorride, ma di gioia vera. È felice. Possibile? Il volto, gonfio oltre misura, testimonia la fatica di combattere una malattia che non lascia scampo. Eppure gli occhi raccontano altro. Trasmettono la convinzione di una vita vissuta, probabilmente fortunata, di sicuro piena. Successi. Sconfitte. Emozioni. Sta tutto qui il paradosso di cui parlavamo poco fa: quel sorriso appare più largo e più convinto di tutti quelli che i fotografi abbiano mai immortalato in 14 anni in Italia dello “svedese di ghiaccio”. Più raggiante anche rispetto a quel 14 maggio del 2000.

Rivedere queste immagini oggi, quando la notizia della sua morte travolge il mondo del calcio, dà l’idea che Sven fosse davvero in pace con se stesso. La pace di chi sa di aver lasciato un segno permenente su questa terra non per la quantità dei successi, ma per la sua qualità. Forse, chissà, aveva trovato un equilibrio anche con il cancro. Senza ipocrisie e senza scoramenti: “È un tumore. That’s it. Ma non disperatevi, sorridete e ricordate i bei tempi”. A gennaio, annunciando di aver passato “il mio ultimo Natale”, disse: “In certi casi, puoi ingannare in qualche modo il cervello e non perderti nelle avversità cercando gli aspetti positivi di ogni esperienza”. Anche dalle più tremende. Per dirla con le parole di Simone Inzaghi: “Ci ha insegnato a vivere mentre stava morendo”.

Eriksson era un santo? No. La vita e lo sport spesso viaggiano su due binari diversi. Sven ha avuto molte donne, a volte anche contemporaneamente, e alcune non conservano un buon ricordo di lui. Dunque nessuna beatificazione. Ha avuto “una vita non normale”, forse “troppo bella”, e chissà se in quel “in qualche modo dovevo scontarla” c’è la convinzione che gli errori prima o poi ti tornano indietro con gli interessi. Anche lui era consapevole che “non tutti diranno che sono stato una brava persona”. Poco importa. Non tanto perché “chi è senza peccato scagli la prima pietra”.

Ma perché in fondo, per quanto ci riguarda, ai simboli sportivi non viene richiesto di essere apostoli o frati, bensì di incarnare un sogno, di chiudere in uno scrigno ricordi indelebili. Eriksson quello scrigno l’aveva costruito con classe e ne era il custode ultimo. Ai laziali ha lasciato un dono inestimabile. Indimenticabile.

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