Il conto alla rovescia per l’edizione dei Mondiali di calcio femminile 2023, in programma tra Australia e Nuova Zelanda dal 20 di luglio al 20 di agosto, non è ancora cominciato che già la Fifa si trova nel bel mezzo di una bufera (vedremo quanto esplosiva) e dovrà rispondere – questo quello che chiedono, ad oggi, le federazioni delle host nations – del perché continui, senza remore, a fare il gioco di chi sta facendo dello sportwashing una delle armi di punta per ripulirsi coscienza ed immagine su scala internazionale, nascondendo sotto al tappeto le sistematiche violazioni dei diritti umani.
Così, accanto agli sponsor che la Fifa ha messo assieme grazie ad un’abile strategia di marketing avviata già nel 2021, come Adidas, Coca-Cola e Visa, figura anche – e il peso è direttamente proporzionale al polverone che sta suscitando – Visit Saudi, il principale ente turistico dell’Arabia Saudita. Una strategia, quella dell’investimento perfino nel femminile, che giunge a compimento in un momento estremamente proficuo per il movimento a livello globale, col crescendo dell’interesse (sportivo ed economico) internazionale e l’avvicinamento di una fetta di pubblico sempre maggiore e trasversale, certificato dallo stesso Presidente Gianni Infantino che ha stimato “due miliardi di potenziali spettatori” con l’auspicio che ciò “contribuisca alla crescita del calcio femminile”. Timing impeccabile.
Lo sportwashing e l’Arabia Saudita: il report di Amnesty
Lo sportwashing, in breve, è una forma di propaganda che consiste in investimenti su strutture, tornei, impianti, federazioni, società sportive per distogliere l’attenzione e fungere da copertura mediatica rispetto invece ad abusi e violazioni dei diritti umani che avvengono all’interno del paese in questione. Il trionfo di tale strategia (ma anche uno degli ultimi e più efficaci esempi) è oltre al Mondiale di Qatar 2022, che certifica l’accreditamento internazionale dei paesi del Golfo come soggetti eleggibili nei massimi eventi sportivi su scala globale, il coinvolgimento dell’Arabia Saudita nella Supercoppa italiana, con un accordo di tre partite in cinque anni dal valore di scambio di 21 milioni di euro. L’associazione Grant Liberty stimava, già nel marzo 2021, un investimento in attività sportive da parte dell’Arabia Saudita per il valore di circa un miliardo e mezzo di dollari americani, con lo scopo sostanziale di ripulire la propria immagine e silenziare le crescenti obiezioni sulla propria condotta in termini di politica interna. Un atteggiamento che s’inserisce in conformità col dichiarato obiettivo di patina riformista del principe ereditario Mohammad bin Salman, con la sua Vision 2030.
Il rapporto 2021-22 di Amnesty International, d’altro canto, dà una panoramica preoccupante dello stato dell’arte in tema di violazione dei diritti nei paesi del Golfo, e non solo. In questo report, le aree più problematiche in cui figura anche l’Arabia Saudita sono quelle relative alla libertà d’espressione e alla criminalizzazione del dissenso e della libertà di associazione, oltre a tortura e maltrattamento, alle condizioni dei detenuti nonché di rifugiati, migranti e sfollati, alle pene di morte al culmine di processi iniqui perseguiti dai tribunali antiterrorismo; e ancora: gravissime le violazioni contro donne e ragazze e contro i soggetti appartenenti alla comunità Lgbtqia+. Così il responsabile del programma Giustizia economica e sociale, Steve Cockburn: “Le autorità saudite hanno inasprito, negli ultimi mesi, la già brutale repressione nei confronti della libertà di espressione, attraverso lunghe condanne – da 10 a 45 anni di carcere – inflitte a chi aveva solo espresso le sue pacifiche opinioni online”. Questo mentre la Fifa rende noti ricavi per 7,5 miliardi di dollari nel periodo 2019-22, riporta ancora Amnesty, e ne prevede altri 11 nei prossimi quattro anni. “L’idea che si arrivi in Arabia Saudita per giocare una partita di calcio e si possa perorare la causa delle attiviste per i diritti delle donne in carcere, dei dissidenti lasciati a languire in prigione, delle bombe che da quattro anni e mezzo devastano lo Yemen, delle decine di decapitazioni mensili in pubblica piazza, è semplicemente ingenua o colpevole. E infatti non è mai successo! Il punto è proprio l’opposto: più si sta al gioco dello sportwashing e più si accredita l’immagine finta di un paese moderno, aperto e avviato sulle riforme”, la conclusione amara dell’associazione umanitaria.
C’è chi dice no: choc e condanne
La notizia dell’accordo commerciale ha scosso, come detto, le federazioni ospitanti di Australia e Nuova Zelanda – e infiammato voci di personalità di spicco nell’ambiente – che hanno immediatamente preteso chiarimenti. “Scioccati e delusi” si dicono i rappresentanti neozelandesi, ai quali si associa il direttore di Human Rights Minky Worden che descrive la decisione come “scioccante disprezzo” per la condizione femminile in Arabia Saudita. È dura la condanna anche da parte di Nikita White, rappresentante di Amnesty International Australia: “Sarebbe non poco ironico che l’organo del turismo saudita sponsorizzasse la più grande manifestazione celebrativa dello sport al femminile nel mondo, se si considera che una donna in Arabia Saudita non può nemmeno avere un lavoro senza il permesso del proprio supervisore maschile”. “Le autorità saudite hanno un orrendo record di violazioni dei diritti umani”, continua l’attivista “La campagna del cosiddetto leader riformista Mohammad bin Salmān non è altro che una trovata pubblicitaria per cercare di diversificare l’economia: sarebbe un caso di sportwashing da manuale!”. Si associa immediatamente Margaret Taylor, community manager della costola neozelandese di Amnesty International: “Tutto questo è particolarmente preoccupante per via dei terribili abusi che, in questo paese, subiscono donne, ragazze, persone della comunità Lgbtqia+. In tal senso, con i nostri sostenitori e le nostre comunità stiamo cercando di smuovere e fare pressioni a livello locale ed internazionale (..) perché questa non è una celebrazione dello sport delle donne: è soltanto sportwashing”.
Nel discorso, si è inserita poi Kate Gill, ex calciatrice idolo delle Matildas australiane dal 2004 al 2015 e adesso co-presidente dell’Australian Professional Footballer’s Union, intervistata dal The Sidney Morning Herald: “Sfortunatamente la Fifa ha dimostrato con una certa costanza di una mancanza di volontà nel perseguire e rispettare gli impegni dichiarati (riferiti al rispetto ed alla promozione dei diritti riconosciuti a livello internazionale, ndr), e in tal senso questo ha eroso la capacità del calcio di essere una vera forza che si applichi per il bene”.
Poi affonda: “I giocatori continuano ad essere il volto pubblico dei maggiori tornei della Fifa; eppure, le loro voci rimangono escluse dal processo decisionale che evidentemente beneficia proprio del loro coinvolgimento”. Allo stesso modo, l’Australian Human Rights Institute con la voce di Justine Nolan critica l’approccio della Federazione, definito “flessibile” proprio in tema di diritti umani.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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